"AL CUOR NON SI COMANDA"
Valori, regole, argomenti e il "caso" nella motivazione delle sentenze costituzionali
1. - In questo intervento, vorrei provare a spiegare:
a) perché Antonio Ruggeri, ed i molti che ne condividono l'opinione, hanno torto nel ritenere possibile, prima ancora che auspicabile, che la Corte fissi precedenze gerarchiche tra "valori" ed operi in base ad esse;
b) perché una motivazione "ben formata" della Corte non possa prescindere dall'indicazione della ratio decidendi;
c) perché, nelle sue motivazioni, la Corte faccia frequente ricorso all'argomento ab absurdo.
Benché questi tre punti possano sembrare slegati, accostati solo casualmente, essi sono tappe di un unico ragionamento. Perché l'accettazione dell'inesistenza di gerarchie fisse tra valori costituzionali, premessa indispensabile di tutto il discorso (§ 2), rafforza la necessità che le sentenze siano motivate, e che siano motivate proprio sul punto del (sempre provvisorio) ordine in cui vengono composti gli interessi in gioco. Tale assetto viene definito in regole, criteri generali-astratti che fissano la prevalenza di un interesse alla condizione rebus sic stantibus (§ 3), e queste regole costituiscono la ratio decindendi della sentenze. Ma le pronunce della Corte hanno la particolarità, che le distingue dalla normalità delle decisioni dei giudici di merito, di riguardare non fatti, rapporti, eventi singoli, ma fattispecie normative generali e astratte: perciò, in questo giudizio, è indispensabile verificare l'estensione in astratto della fattispecie normativa, la "tenuta" della "regola di prevalenza" di fronte ai casi-limite sussumibili alla fattispecie normativa (§ 4). In questo schema, l'argomento ab absurdo svolge spesso il ruolo di un esperimento mentale di "tenuta" della regola (§ 5).
2. - Non posso né voglio negare che qualche forma di gerarchia tra norme costituzionali sia possibile. Per esempio, la revisione della Costituzione o l'immissione nel nostro ordinamento di norme extra ordinem sono fenomeni in cui possono emergere differenziazioni e graduazioni tra norme costituzionali, alcune delle quali risultano più resistenti (alla revisione o alla deroga) di altre: in questi termini, come a tutti è noto, la Corte si è espressa più volte.
Non mi sembra accettabile però alcun transito[1] dal piano dei rapporti tra norme a quello dell'applicazione delle norme stesse nel giudizio di legittimità delle leggi. Infatti, laddove si ponga l'ipotesi della "cedevolezza" di una norma costituzionale per un evento concorrente (interno o esterno al nostro ordinamento), ci muoviamo in un'atmosfera del tutto diversa da quella del giudizio di legittimità. Nella prima si tratta infatti di individuare il "nucleo forte" che connota questa Costituzione, quei pochi e fondamentali princìpi il cui abbandono o la cui deformazione causerebbe una irrimediabile perdita di identità del sistema costituzionale. Nulla di tutto ciò è invece in gioco (di solito) nel giudizio di legittimità, in cui si tratta di regolare l'occasionale (e, per definizione, rimediabilissimo) contrasto tra interessi: una delle pressoché infinite rotte di collisione tra due (o più) dei pressoché innumerevoli interessi potenzialmente concorrenti[2]. Da questa seconda atmosfera è del tutto assente la drammaticità della difesa di un regime costituzionale e degli elementi che ne segnano l'identità[3].
A contrastare l'instaurazione di qualsiasi ordinamento assiologico nell'àmbito dei "valori" costituzionali e in riferimento alla loro considerazione nell'àmbito del giudizio di legittimità, militano numerose ragioni. Mi limito ad illustrare quella che mi sembra la meno compromettente sul piano metaetico e la più persuasiva in termini operazionali. E, per evitare di restare impigliato in ragionamenti troppo complessi, mi avvalerò di una metafora "amorosa", la cui futilità spero mi venga perdonata in considerazione dell'aiuto che essa può dare alla comprensione del ragionamento.
Premessa: valori, princìpi, sentimenti non sono mai conflittuali in astratto. La vita, la salute, la giustizia, ecc.: non vi sono ragioni che impediscano di affermarle insieme e, anzi, talvolta sembrano trainarsi, in qualche misura, l'una con l'altra. I conflitti non sorgono nelle affermazioni di principio: quante volte si è sentito dire, e forse si è pure detto, che è ben possibile amare contemporaneamente due donne (o due uomini), senza essere travolti da insanabili conflitti.
Valori e sentimenti, non essendo di per sé conflittuali, si lasciano docilmente ordinare in gerarchie, quando si ragiona in teoria: sotto un certo profilo, la vita precede la salute, e questa la giustizia (e un accomodamento ancora più docile si può imporre ai sentimenti). Il conflitto sorge quando si deve scegliere con chi andare in vacanza in montagna o passare il Capodanno. Salvo rarissimi casi (e sono poi fortunati?) qualche scelta allora s'impone. Essa è determinata dalla gerarchia a priori? Non credo proprio, perché molte variabili vanno valutate: per esempio, bisogna considerare quali conseguenze comporti una determinata preferenza in termini di turbamento dell'equilibrio del "sistema" (come la prenderà l' "altra/o"?), quali possibilità vi siano di ricuperare uno spazio di salvaguardia del "valore" sacrificato («.. ma il Natale lo passo a casa!»), quali sono le condizioni "ambientali" in cui la scelta si compie e da cui non può che essere determinata (anche se la/il fortunata/o è in testa alla classifica "astratta", perché andare in montagna con lei/lui, se lei/lui detesta il freddo e non sa sciare?).
Qui però l'ordine costituzionale e l'ordine dei sentimenti iniziano a divaricarsi. Perché l'ordine dei sentimenti ha, per sua natura, una latente impronta assolutistica (all'argomento "ma tu non sai sciare e detesti la montagna", sarebbe seguita, immancabile, la replica "ma se tu mi amassi davvero, rinunceresti volentieri alla montagna e mi porteresti..."). "Al cuor non si comanda" diviene così il motto rappresentativo del carattere ab-soluto dell'ordinamento, in cui diritti individuali e pluralismo sono difficili da affermarsi e, malgrado i tentativi individuali e sociali di civilizzazione, l'alternativa soggezione-rivoluzione spesso non lascia accesso a terze vie. La severa applicazione del principio di esclusione fa sì che l'eventuale appartenenza a due (o più) ordinamenti dei sentimenti debba, di regola, essere rigidamente clandestina e gli eventuali conflitti, pur sempre concreti, e per questo assai spesso drammatici, si svolgano sotto l'incombente minaccia della sanzione più grave (dal punto di vista dell'ordinamento, s'intende) della radiazione.
Per fortuna, invece, l'ordine costituzionale è, per usare l'espressione di Gustavo Zagrebelsky, "mite". L'unico "valore" irriducibile è, in esso, la pluralità dei valori e dei princìpi, il loro necessario contemperamento[4]; l'unico principio sovraordinato, la tolleranza[5]; l'unica premessa metodologica, l'accettazione di un approccio "pluralista", che ammette il conflitto tra i diversi "principi" costituzionali, ma nega che esista una teoria superiore che lo possa risolvere[6].
3. - "Valori" e metafore hanno portato il discorso troppo in alto. Esso ha invece importanti riscontri operativi nella giurisprudenza. La prassi giurisprudenziale ci dice che non v'è nessun "valore", per quanto alta possa essere la sua posizione nel (supposto) ordine assiologico della Costituzione, che non risulti in almeno un caso soccombente nel confronto con qualche altro interesse, per quanto marginale esso appaia in termini astratti. Ruggeri riconosce che "purtroppo" lo schema gerarchico in certi casi non funziona più[7]. La mia impressione è che, sul piano descrittivo, questo preteso schema è sempre inapplicabile, e non solo qualche volta; ed inoltre, che di ciò non bisogna affatto rammaricarsi, perché, sul piano prescrittivo, è il principio stesso della "mitezza" ad imporlo[8]. Non v'è interesse, per quanto marginale, la cui totale e sistematica compressione non si possa tradurre in un'inaccettabile infrazione al principio di tolleranza, che subirebbe lo stesso affronto in presenza di una sistematica e incondizionata prevalenza di qualsiasi "valore", per quanto elevato possa essere considerato (quanti rapporti di coppia, nell'ordinamento dei sentimenti, sono falliti per la sistematica e recidiva compressione di qualche interesse o inclinazione, sia pure di per sé - o per la percezione dell' "altro/a" - poco significante, di uno dei partner?).
Il fatto è che ragionare in termini astratti serve a ben poco, ed è questo che si sottintende quando si dice che la composizione degli interessi è guidata dal "caso". Com'è che avviene, come fa il "caso" a guidare il giudice? Il "caso" ci offre una rappresentazione di una certa situazione, segnata da determinati fattori che il giudice reputa rilevanti; in presenza di uno specifico assetto di questi fattori (il "caso", appunto), il giudice decide che un certo interesse prevale su un altro, magari fissando anche i limiti e le modalità del prevalere. Provo a mettere a fuoco gli elementi di questo scenario, evidenziati in corsivo:
a) fattori. Sono circostanze della più varia natura. Possono essere dati desunti dalla situazione socio-economica, scientifico-tecnologica, legislativa o giurisprudenziale (i tipici presupposti il cui mutare producono l'anacronismo della norma); possono essere considerazioni relative alla strumentazione complessiva degli interessi in concorso, volte a valutare la potenzialità residua di ciascuno di essi se venisse sacrificato nell'occasione presente; possono essere valutazioni relative alle conseguenze di una determinata scelta per gli altri interessi che stanno attorno (per esempio, il contenimento del debito pubblico, l'efficienza organizzativa dell'amministrazione o della giustizia, il superamento di uno stato di emergenza);
b) rilevanza. Che questi fattori siano rilevanti per il giudizio è una valutazione del giudice ad elevato grado di soggettività: elevatissimo nel caso della Corte, per l'assenza nel processo di parti necessarie e, comunque, adeguate alla portata generale che assumerà la pronuncia. Segnalo solo il problema, non potendolo certo approfondire qui;
c) interesse. Non trovo termine meno carico di implicazioni. Come già detto[9], credo che sia sbagliato immaginare che si proceda (o si debba procedere) da una preventiva selezione degli interessi in campo, ammettendo al bilanciamento solo quelli che risultino "coperti" da qualche principio costituzionale. Il fatto stesso che un interesse sia giudicato "apprezzabile" comporta, probabilmente, che esso possa essere inserito in un discorso condotto in termini di diritto costituzionale: se non trova posto in un "principio" specifico, si presteranno ad ospitarlo clausole più elastiche (per esempio, la dignità umana e la realizzazione della propria personalità, se di interessi individuali si tratta; l'ordinata coesistenza della collettività o l'utilità generale, se si tratta di un interesse sociale; le esigenze di funzionalità delle istituzioni pubbliche, per gli interessi, appunto, pubblici; l'interesse nazionale, il principio di unità o quello di autonomia, nelle relazioni Stato-regioni) o, come per lo più avviene, verrà inserito nel "discorso" costituzionale dopo esser stato convertito in uno dei termini di comparazione nel giudizio di eguaglianza. La facilità con cui può essere attivato questo ascensore retorico, che porta dal piano degli interessi a quello dei princìpi costituzionali, mi fa perdere qualsiasi interesse per la problematica dei "nuovi diritti" costituzionali e qualsiasi considerazione per le motivazioni che di quel ascensore si avvalgono;
d) limiti e condizioni. Concorrono con i "fattori" a determinare le condizioni di fatto e di diritto ricorrendo le quali un certo interesse prevale su un altro. Insieme fissano il contenuto della clausola "rebus sic stantibus" che relativizza, legandola al "caso" (debitamente ricostruito nei suoi termini archetipici, generali e astratti, come è proprio della fattispecie normativa), la "regola di prevalenza" di un interesse sull'altro: prevalenza che non è assoluta, ma, appunto, legata al permanere di determinate condizioni: "la condizione in cui un principio prevale su un altro, costituisce la fattispecie di una regola che esprime la conseguenza giuridica del principio prevalente"[10].
Va sottolineato che la messa a fuoco delle condizioni in cui un interesse è giudicato prevalente è ciò che distingue una decisione ben motivata da un'opzione ingiustificata, e perciò stesso arbitraria. Se esistessero gerarchie preconfezionate degli interessi, ciò non sarebbe vero, perché la Corte applicherebbe una regola di prevalenza (incondizionata) già data. Ma siccome queste gerarchie non esistono - almeno questa è la mia opinione - ecco che l'esigenza di motivare l'occasionale prevalenza di un interesse sull'altro richiede una descrizione particolareggiata dell' occasione (il "caso") che la genera. Ma va aggiunto che la motivazione della decisione passa per la costruzione di una vera e propria regola, composta da una fattispecie generale e astratta e di una conseguenza giuridica precisa e, in certi casi, circostanziata (i "limiti" e le "modalità" della prevalenza). Il carattere "normativo" della "regola" è testimoniato dalle tracce che le condizioni di prevalenza lasciano nello stesso dispositivo di accoglimento, specie laddove la pronuncia sia di accoglimento "additivo": in questo caso è assai frequente che gli ultimi passaggi della motivazione fissino nei particolari le condizioni, e che poi gli elementi fondamentali di esse siano citati nel dispositivo[11].
Ragionando in termini formali, questa "regola" rappresenta la chiave di volta della motivazione della sentenza: è la premessa maggiore che regge la conclusione (la "motivazione interna") e che, a sua volta, si deve reggere su persuasive giustificazioni (la "motivazione esterna")[12]. Essa costituisce la ratio decidendi del caso. La giustificazione, espressa in termini universali (generali e astratti), della decisione data al "caso", ha l'autorità, la potenzialità "normativa" propria del precedente: "it is as justificatory reasoning that judicial opinions are normative"[13].
4. - Questo schema si può applicare - credo - al modo di procedere di qualsiasi giudice. Ma la Corte ha un problema particolare. Ciò che essa ha da valutare non è un "caso" concreto, specifico e accuratamente ricostruito ed argomentato dalle parti, ma una fattispecie normativa, suscettibile di essere valutata solo in astratto, nei termini "universali" in cui essa è formulata. Come fa la Corte, allora, a fissare le "condizioni di prevalenza" di un interesse sull'altro?
Prendiamo il caso in cui la Corte sia chiamata a valutare se una certa disposizione legislativa offra un adeguato contemperamento degli interessi in gioco. Il giudizio origina da un "caso" concreto, nel cui àmbito è apparso che l'applicazione della fattispecie legislativa al "caso" ci collochi in un punto prospettico da cui, come accade nella prospettiva monofocale, il disegno si rivela squilibrato. Ma la Corte, appunto, non giudica del caso concreto, ma della regolazione generale e astratta cui esso è sottoposto[14]. Il primo problema che la Corte deve porsi (e della cui soluzione la motivazione deve dar conto) è in che misura si debba tener conto dell'immagine percepita da quel punto focale, fino a che punto, cioè la deformazione intacchi l'equilibrio e l'armonia del disegno legislativo nel suo complesso (dando per scontato che, comunque, l'immagine percepita dal giudice remittente risulti effettivamente deformata rispetto ad un assetto sufficientemente equilibrato degli interessi: perché, in caso contrario, il rigetto "secco" della questione chiuderebbe ogni spazio al mio discorso).
Due sono le possibilità, e due le strategie argomentative usualmente praticate. Vorrei illustrarle sommariamente per evidenziare quali tracce esse lascino nella "regola di prevalenza"; e poi vorrei sottolineare quale particolare funzione svolga l'argomento ab absurdo nella scelta della strategia.
La prima strategia punta al rigetto della questione. Si afferma la irrilevanza delle deformazioni percepite dal particolare punto di vista assunto dal giudice a quo. L'argomento impiegato è assai spesso quello della "non raggiungibile varietà del concreto"[15], il quale afferma che al legislatore non si può chiedere di "prevedere e disciplinare tutte le mutevoli situazioni di fatto"[16]. Formule equivalenti, sebbene più "specializzate", sono quelle dell'irrilevanza delle diseguaglianze "di mero fatto"[17] - formula che, ovviamente, se non suffragata da qualche considerazione ulteriore, è un'affermazione priva di qualsiasi pregio argomentivo[18] - ed il riferimento all' id quod plerumque accidit, con la quale la Corte intende di solito suffragare presunzioni, prognosi o generalizzazioni compiute dal legislatore riferendosi ad un ordine di cose supposto "normale"[19]. La pregevolezza di queste figure argomentative è molto bassa, la loro incidenza nella configurazione della "regola di prevalenza" è pressoché nulla. Sono formule stereotipate, ripetute con grande frequenza e che troppo spesso occupano lo spazio che avrebbe dovuto essere destinato a qualche ragionamento più calzante, vòlto a giustificare perché una certa deformazione sia assunta come irrilevante. Ma, probabilmente, il torto principale sta nell'atto introduttivo del giudizio costituzionale, in cui non si è riusciti a rendere "universale" la deformazione percepita nel "caso", prospettandola in termini tali da agevolarne l' inserimento nella "regola", quasi suggerendo, anzi, alla Corte come fraseggiarla.
La seconda strategia conduce invece all'accoglimento. Se la deformazione prospettica è solo parziale, non sarà necessario demolire l'intero affresco. La Corte predilige due metodologie argomentative per limitare l'intervento ablatorio. L'una, solitamente svolta nell'alveo del giudizio d'eguaglianza, porta a circoscrivere con grande esattezza il profilo per cui è ordinata l'ablazione, sin quasi a ricalcare il contorno del "caso", riproducendone la silhouette nella "regola"[20]. Così però, introducendo nel dispositivo di accoglimento l'indicazione di tutte le circostanza che concorrono a formare la "regola", si riesce a fare quanto neppure la più avanzata tecnica di restauro potrà mai fare con gli affreschi: lasciare intatta l'opera (la disposizione) ed incidere solo su quanto il pubblico deve percepire da un certo punto di vista (la norma).
L'altra metodologia, che altrove ho cercato di illustrare[21], serve essenzialmente a rendere più flessibile l'applicazione della legge, consentendo ai soggetti dell'applicazione il compito di valutare, nel contemperamento degli interessi, le particolarità del caso. Anche l'applicazione di questa metodologia lascia tracce evidenti nella "regola", perché la "delega" quasi mai è in bianco, ma indica quantomeno i parametri di valutazione che il delegato dovrà tener presente[22].
5. - "L'irraggiungibile varietà del concreto" può giustificare i tagli netti compiuti dal legislatore, ma spetta poi alla Corte consolidare i contorni mediando tra astratto e concreto. In questa opera svolge un ruolo del tutto particolare l'argomento ab absurdo. E' un argomento di uso corrente da parte dei giudici, come strumento di interpretazione che consente di aprire una finestra sulle conseguenze della decisione[23]: e, in effetti, anche la Corte vi ricorre spesso per escludere che si possa interpretare la legge de qua in un determinato senso, per l' "assurdità" delle conseguenze che ne deriverebbero[24]. Ma la Corte ricorre alla reductio ad absurdum anche in un'altra, più caratteristica occasione. Non per selezionare, sulla base delle ipotetiche conseguenze, una delle diverse interpretazioni della disposizione, ma per saggiare la tenuta dell'assetto degli interessi disegnato dal legislatore anche in presenza di "casi" ipotetici ed estremi.
Si tratta di un'esperimento mentale a cui la Corte ricorre per confrontare l' "astratto" con un aspetto del "concreto" che non è legato al "caso" de quo (o, quantomeno, non lo è necessariamente), ma è costruito artificialmente per saggiare se e sino a che punto la norma in questione soddisfi i requisiti della ragionevolezza. A questo tipo di esperimento la Corte ha fatto ricorso con regolarità già nei primi decenni della sua attività, quando il suo strumentario non si era ancora arricchito degli arnesi necessari ad interventi microchirurgici di correzione delle "deformazioni" rivelate dal disegno legislativo. La dottrina dei "limiti naturali" dei diritti costituzionali è ampiamente sorretta da argomentazioni tese a dimostrare la palese assurdità, in termini di protezione dei diritti stessi, di un'eventuale rimozione della disciplina. Il caso paradossale serviva a giustificare la necessità "in astratto" della legge impugnata, salvo poi, casomai, regolarne l'applicazione in concreto con una serie di indicazioni tese a correggere possibili deformazioni[25].
In questi casi il ricorso all'argomento ab absurdo è servito a giustificare la prima mossa della Corte nel procedere verso il rigetto della questione: giova a giustificare la ragion d'essere della norma posta dal legislatore. In altri casi, ma sempre nell'alveo di strategie tese al rigetto, l'argomento può servire per giustificare la "ragion di non essere" della norma che il giudice a quo chiede alla Corte di produrre con la sua sentenza: anche in questo caso, l'esperimento mentale consente di ispezionare il concreto per registrare quante e quali ipotesi potrebbero esistere in cui la norma creata dalla sentenza si rivelerebbe produttrice di conseguenze assurde[26].
Anche in strategie argomentative vòlte all' accoglimento della questione, l'esperimento mentale del paradosso può giovare. Serve a rendere più lucide ed evidenti, portandole all'estremo, le ragioni dedotte contro la ragionevolezza delle disposizione impugnata: dimostrando che la deformazione del disegno legislativo, denunciata dal giudice a quo, non è un episodio marginale, insignificante rispetto alla "irraggiungibile astrattezza" della norma, ma che, anzi, diventa sempre più intollerabile man mano si proceda in una certa direzione. Questo procedimento argomentativo è impiegato soprattutto nelle decisioni in cui vengono demolite le previsioni o le presunzioni troppo rigide costruite dal legislatore: ragionare con riferimento all'ipotesi-limite ben può servire a dimostrare l'effetto paradossale che la norma può produrre, con ciò stesso giustificando l'introduzione di meccanismi che ne allentino la tassatività[27].
All' argomento ab absurdo, come ricordavo in precedenza, è usuale ricollegare una certa forza anti-formalista, che spinge a guardare alle conseguenze della norma. Anche per la Corte è uno strumento per uscire da un ragionamento a due dimensioni (la norma astratta e il "caso" concreto a quo: il classico schema sussuntorio) verso uno a tre: il fattore ulteriore è il "caso" limite immaginario, terzo indispensabile punto di osservazione da cui saggiare la "tenuta" del disegno legislativo.
Ma, se di questi esperimenti mentali la Corte sente il bisogno, ciò dipende dal fatto che non dispone di alcun punto fisso da cui tracciare le linee che diano un organizzazione assiologica all'ordinamento: perché, in ordinamenti assiologicamente organizzati, di tutto ciò non si sente affatto il bisogno. Tra innamorati certi esperimenti mentali ("cosa faresti, se io un bel giorno...") è bene non farli. Sono oziosi ed eversivi: si finisce quasi sempre con litigare.
Roberto Bin
[1] Transito suggerito e praticato invece da Ruggeri nelle Note introduttive di questo seminario, oltre che in numerose e note pubblicazioni precedenti.
[3] Devo peraltro aggiungere - a rischio di una parziale attenuazione della radicalità di cui ho dotato la distinzione appena tracciata, ma, mi sembra, ottenendo in cambio il risultato di indebolire le aspettative di quanti vorrebbero rendere operative nel giudizio di legittimità le supposte gerarchie avvalorate nell'altra prospettiva - che le affermazioni di gerarchie tra norme costituzionali da parte della Corte costituzionale si riducono, nella gran maggioranza dei casi, a mera enunciazione di principio, non seguite da una concreta applicazione della gerarchia accreditata. Classici obiter dicta sono i riferimenti alla sindacabilità delle leggi di revisione che minacciassero i "valori supremi" della Carta (sent. 1146/1988) o i numerosi riferimenti al "limite" dei princìpi supremi contenuti in sentenze che - non essendo, nel caso, stato superato tale "limite" - hanno avvalorato (o, al massimo, corretto in via interpretativa) disposizioni legislative interne connesse a norme di altri ordinamenti (concordatario, comunitario o internazionale-consuetudinario), risultanti in qualche misura derogatorie rispetto alle regole costituzionali. Per cui l'applicazione di queste gerarchie come ratio decidendi si risolve a ben poca cosa: ad una applicazione promessa, e poi disattesa per questioni processuali, in materia di effettività del diritto di difesa nell'ordinamento comunitario (sent. 232/1989); ad un'applicazione effettiva nella nota decisione sulla tutela giurisdizionale in sede di esecuzione delle sentenze ecclesiastiche (sent. 18/1982). Ma in questo caso - ecco la parziale attenuazione della distinzione tracciata - si è trattato di una strategia argomentativa consigliata esclusivamente dalla ricerca di coerenza con i precedenti della Corte in materia concordataria: non si è trattato, insomma, di una difesa dell'estrema linea di protezione dell'identità costituzionale, ma di una semplice argomentazione, poco felice per giunta (trovo del tutto condivisibili le critiche di RUGGERI, Le attività "conseguenziali" nei rapporti tra Corte costituzionale e il legislatore, Milano 1988, 213-215), e che, tutto sommato, avrebbe potuto essere con vantaggio sostituita da altre.
[5] RICHARDS, Toleration and Constitution, New York-Oxford 1986.
[6] SCHAUER, An Essay on Constitutional Language, 29 "UCLA L.R." 1982, 797 ss., 820.
[10] ALEXY, Theorie der Grundrechte, Baden-Baden 1985, 84.
[11] Un esempio tra i tanti nella recente sent. 179/1993, in tema di parità dei lavoratori nei diritti-obblighi di assistenza al figlio nel suo primo anno di vita: nel dispositivo si dichiara l'illegittimità "nella parte in cui non estende, in via generale ed in ogni ipotesi [questa clausola serve a superare le precedenti decisioni che sottoponevano l'estensione alla "condizione" del decesso o del grave impedimento della madre], al padre lavoratore, in alternativa [fissa la non cumulabilità dei permessi: nell'ultimo passo della motivazione si indica anche come, in applicazione dei principi di correttezza e buona fede, vada esercitata l'opzione nel modo di non ledere eccessivamente l'interesse del datore di lavoro al rispetto delle esigenze dell'organizzazione aziendale] alla madre lavoratrice [circoscrive il diritto del padre escludendolo nel caso in cui la madre non lavori; resta irrisolto il caso inverso, in cui sia il padre a fare il "casalingo": può il datore di lavoro, in nome della parità, negare i permessi alla madre?] consenziente [la motivazione insiste sull'assenso della madre e sullo spirito di "leale collaborazione" in cui deve prodursi l'accordo dei coniugi], il diritto ai riposi giornalieri ecc.".
[12] Per questa distinzione, ormai usuale del resto, cfr. WRóBLEWSKY, Legal Decision and Its Justification, in Le raisonnement juridique, Bruxelles 1971, 409 ss.; ALEXY, Theorie der juristischen Argumentation, Frankfurt a.M. 1978, 273 ss.; AARNIO, The Rational as Reasonable - A Treatise on Legal Justification, Dordrecht 1987, 119 ss.
[13] MacCORMICK, Why Cases Have Rationes and What These Are, in GOLDSTEIN, Precedent in Law, Oxford 1987, 155.
[18] Ed infatti non meno numerose sono le occasioni in cui la Corte attribuisce rilevanza a differenze che pur sempre sono meramente fattuali: v. per es. le sent. 125/1957; 79/1958; 58/1960; 21/1961; 39/1965; 37/1969; 159/1969; 153/1977; 126/1979; 131/1979; 17/1985; 72/1987; 163/1993.
[21] Cfr. Diritti e argomenti, cit., 90-93, 127-131; Giudizio "in astratto" e delega di bilanciamento "in concreto, in Giur.cost. 1991, 3574 ss.
[27] Simili solo in apparenza sono i casi in cui l' irragionevolezza si rivela nel paradosso dell'intrinseca contraddizione tra ratio ed effetti della legge: sicché si potrebbe dire che, metafisicamente, è la stessa legge che si autoconfuta: cfr., per es., la sent. 396/1989 (sull'esclusione del cumulo delle pene a danno dei terroristi pentiti), la sent. 307/1989 (in tema di contribuzione volontaria, in cui le conseguenze aberranti della norma non sono ritenute semplici questioni di fatto), o la sent. 126/1979 (sull' INVIM, in cui si nega che gli effetti paradossali dell'applicazione dei criteri di rivalutazione possano essere trattati come "meri pregiudizi di fatto"). Ma il ruolo giocato dalla reductio ad absurdum in queste ipotesi è più sfumato, perché si esaurisce in un'argomentazione ad adiuvandum rispetto alle argomentazioni dedotte dall'ordinanza.