BIBLIOGRAFIA (Si segnalano le sole opere a carattere generale, rinviando al testo per le indicazioni più specifiche) - VIRGA, La Regione, Milano 1949; MIELE, La Regione nella Costituzione ita­liana, Firenze 1949; MARTINES, Studio sull'autonomia politica delle regioni in Italia, in RTDP 1956, 100 ss.; GALEOTTI, Osservazioni sulla "legge regionale" come spe­cie della "legge" in senso tecnico, in RTDP 1957, 76 ss.; PALADIN, La potestà legisla­tiva regionale, Padova 1958; CRISAFULLI, La legge regionale nel sistema delle fonti, in RTDP 1960, 262 ss.; CRI­SAFULLI, Gerarchia e competenza nel sistema costituzionale delle fonti, in RTDP 1960, 775 ss.; MAZZIOTTI, St. sulla potestà legislativa delle Regioni,  Milano 1961; AMATO, Il sindacato di costituzionalità sulle compe­tenze legislative dello Stato e della regione, Milano 1964; BARTOLE, Autonomia e col­laborazione nei rapporti tra Stato e Regioni, in RTDP 1971, 84 ss.; D'ATENA, , in Enc.dir. XXIII, Milano 1973, 969 ss.; D'ATENA, , in Enc.dir. XXXIX, Milano 1988, 317 ss. (saggi raccolti ora in D'ATENA, Costi­tuzione e regioni. Studi, Milano 1991); D'ATENA,  L'autonomia legislativa delle Regioni, Roma 1974; MORTATI, I limiti della legge regionale, in Atti del III Conv. di st. giur. sulle Regioni, Milano 1962 (ora in Rac­colta di scritti, III, Milano 1972, 579 ss.; MORTATI, Istituzioni di di­ritto pubblico, II, Milano 1976, 925-970; CRISAFULLI, Lezioni di diritto costitu­zionale, II, Padova 1984; ZAGREBELSKY, Il sistema costituzionale delle fonti del diritto, Torino 1984, 216 ss.; BARTOLE, FALCON, VANDELLI, ALLEGRETTI, PUBUSA, Le Regioni, le Province, i Comuni, Tomo I, Comm. della Cost. Scialoja e Branca, Bologna-Roma 1985;  CERRI, La giurisprudenza della Corte costitu­zionale sui rapporti fra Stato e regioni dal luglio 1981 al luglio 1986, in Re 1987, 9 ss.; MARTINES-RUGGERI, Lineamenti di diritto regionale, Milano 1987; MAZZIOTTI DI CELSO, Errore. L'origine riferimento non è stata trovata., in Enc.giur. XVIII, Roma 1990; TOSI,  "Principi fondamentali" e leggi statali nelle materie di competenza regionale, Padova 1987; CUOCOLO, Diritto regionale italiano, Torino 1991; GIZZI, Manuale di diritto re­gionale, Milano 1991; MELONI, La potestà legislativa regionale nei rapporti con la legge statale, Milano 1991; PALADIN, Di­ritto regionale, V ed., Padova 1992.

 

LEGISLAZIONE: si fa rinvio al testo.

 

SOMMARIO: 1. La potestà legislativa regionale: l'originario mo­dello "euclideo"; 2. ... e la sua crisi; 3. La riduzione della le­gislazione regionale alla disciplina "amministrativa". Il princi­pio "chi paga ha la competenza"; 4. Il "mito" della legge cornice e l'inevitabile "giurisdizionalizzazione" dei rapporti; 5. Il su­peramento del principio del terzo escluso, ovvero i vari volti dell'interesse nazio­nale: A) La conversione del limite di merito in limite di legittimità; B) La tecnica del "ritaglio" delle mate­rie; 6. (Segue). C) La funzione di indirizzo e coordinamento; D) Il potere so­stitutivo; 7. Il problema degli "obblighi internazio­nali": A) Le attività internazionali delle regioni;  8. (Segue): B) L'attuazione delle norme CEE; 9. La legge regionale nel sistema delle fonti: verso un diritto regionale "post-euclideo".

 

 

1. La potestà legislativa regionale: l'originario modello "euclideo".

Forse nessun settore del diritto pubblico ha subito uno stravolgi­mento altrettanto profondo, nel passaggio dai modelli iniziali di organizzazione teorica all'attuale configurazione pra­tica, di quanto è accaduto per la potestà legislativa regionale. Tutti i tratti di marcatura che connotavano la fisionomia della potestà legislativa regionale e che, in grande parte, erano trac­ciati già dalla Costituzione e dagli statuti speciali, sono stati oggetto, più che di revisione, di una sistematica svalutazione: sicché oggi essi servono assai poco a dar conto del quadro dell'autonomia le­gislativa regionale.

     Il modello originario era organizzato in modo "euclideo", at­traverso l'impiego di linee orizzontali e verticali di delimita­zione delle "sfere" di attribuzione delle regioni e dello Stato[1]. In coerenza con l'impianto filosofico, in esso dominava il princi­pio del terzo escluso, per il quale non potrebbero esistere aree di sovrapposizione tra le competenza dello Stato e quelle della regione[2]: proprio questo principio, come vedremo, più di ogni al­tro specifico aspetto della ripartizione delle attribuzioni, è stato travolto dall' esperienza.

     La potestà legislativa regionale, in particolare, veniva confi­gurata in negativo, attraverso l'indicazione dei suoi limiti: e questi erano stati disegnati dal Costituente e dalla prima dot­trina, ragionando sulla base della natura stessa del nuovo ente. Ne è derivato un quadro coerente e astrattamente ineccepibile, in cui i "limiti"  della legge regionale sono in parte generali, va­lidi quindi per ogni tipo di legge locale, in parte specifici dei vari livelli di potestà, livelli che proprio in forza di questi limiti specifici si distinguono l'uno dall'altro.

     I limiti generali, a loro volta, sono connessi in parte alla "natura" della legge regionale come fonte primaria, condizionata al rispetto della Costituzione (il c.d. "limite costituzionale"[3]); in parte alla "natura" dell'autonomia della regione, ente non so­vrano ma derivato, privo di soggettività nell'ordinamento interna­zionale (limite degli obblighi internazionali[4]); in parte, ancora, alla "natura" particolare dell'ente (contrapposta alla "generalità" dello Stato): particolare per delimitazione geogra­fica (limite territoriale[5]) e per specializzazione settoriale (limite delle materie[6]).

     I limiti specifici dei diversi livelli di potestà attengono invece tutti al rapporto tra legge regionale e ordinamento sta­tale. Sono costruiti come scatole concentriche, la cui "cubatura" (cioè, fuor di metafora, l'àmbito di autonomia riconosciuto) si va progressivamente restringendo: passando da un massimo, la potestà piena, esclusiva o primaria (riservata alle regioni ad ordinamento speciale) - che nell'ordinamento dello Stato non incontra che il limite derivante dal rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento stesso[7] e delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali[8] - ad un livello intermedio, la potestà ripar­tita, concorrente o secondaria (riconosciuta a tutte le regioni, salva la Valle d'Aosta) - che in­contra, in aggiunta, il limite ben più penetrante dei princìpi fondamentali della legislazione sta­tale nelle singole materie[9] - per giungere infine al livello mi­nimo, la potestà integrativa[10] o d'attuazione[11], in cui lo spazio residuato alla legge locale non è diverso da quello tipico dell'atto regolamentare[12], legato questo come quella all'integrale rispetto del disposto legislativo[13].

     Alla base del modello di ripartizione delle funzioni stava un'altra "grande divisione" di geometrica chiarezza concettuale: la distinzione tra i controlli di legittimità e quelli di merito. I primi, collegati tutti ai limiti elencati sopra[14], e quindi a linee ideali di suddivisione dei ruoli, erano immaginati come un riscontro operabile con i soli strumenti dell'indagine giuridico-formale, trattandosi pur sempre di un giudizio di compatibilità tra norme: erano perciò demandabili ad un giudice, sia pure a quel particolare giudice che è il "giudice delle leggi". I secondi, per quanto si può congetturare circa il loro significato[15], avrebbero comunque dovuto attivarsi in caso di contrasti d'interesse "politico" tra Stato e regioni (o fra regioni), conflitti tra scelte politiche che si sarebbero scontrate, rischiando di para­lizzarsi reciprocamente: sicché la composizione del conflitto ad altri non avrebbe potuto spettare che al parlamento nazionale, la somma istanza politico-rappresentativa della nazione, la cui deci­sione avrebbe potuto assumere forme diverse, adeguate alla contesa e alla soluzione del caso[16].

     Come aveva avvertito ben presto la dottrina più accorta[17], però, il quadro disegnato dalla Costituzione presentava una grave deficienza: tutti i meccanismi previsti segnavano la separazione delle attribuzioni e si sforzavano di garantirla, mentre nessuno era diretto ad introdurre e istituzionalizzare forme di collega­mento, coordinamento e collaborazione. Grave sbilanciamento, se si pensa, in un forma di governo (di cui pure l'istituto regionale è elemento di connotazione[18]) che per il resto è tutta costruita mi­rando alla ricerca dei momenti di contatto e di cooperazione tra gli organi, del loro "coordinamento organico ed operativo"[19]. Il fatto che la Costituzione non abbia disciplinato invece i meccani­smi di collegamento tra Stato e regioni ha significato che, per almeno questo tratto, la loro organizzazione è stata interamente modellata dalla legislazione ordinaria dello Stato, senza che le regioni potessero fare affidamento su garanzie "rinforzate" della loro autonomia, salvo quei pochi princìpi che la Corte cost. è riuscita a fissare con interventi che, per loro natura, sono spo­radici e puntuali.

 

2. ... e la sua crisi.

La prevalenza dell'interesse nazionale  è stato il fondamento (costituzionale, secondo quanto la Corte ha sempre dichiarato) per introdurre tutta una serie di meccanismi - che nelle pagine suc­cessive verranno esaminati - che si sono so­vrapposti alle linee di demarcazione dei confini (costituzionalmente protetti) dell'autonomia regionale, attenuan­dole sino quasi a cancellarle. Poiché questi meccanismi sono stati introdotti con strumenti nor­mativi di rango non costituzionale, la garanzia degli interessi regionali, non potendosi agganciare ad una norma superiore, è ri­masta affidata soltanto alla capacità di contrattazione delle re­gioni stesse.

     E' quindi inevitabile che il discorso giuridico-formale sulla legge regionale nel sistema delle fonti si sia contaminato con considerazione di natura schiettamente politologica sulla forza contrattuale delle regioni e sulla loro autonomia politica. Non ovviamente sulla teorica titolarità regionale di una (impalpabile) "potestà di indirizzo politico"[20], ma sulla credibilità della re­gione come ente di governo  e dei suoi dirigenti come classe poli­tica adeguata ai compiti. Il fatto determinante però, si noti, è che queste valuta­zioni non potevano condursi caso per caso, di­stinguendo le sorti delle regioni più "mature" da quelle meno af­fidabili: la possibi­lità di una considerazione differenziata di esse, ovvia sotto il profilo dell'analisi politologica, non si sa­rebbe potuta tradurre in concrete soluzioni istituzionali, perché lo impedisce uno dei princìpi-cardine del quadro costituzionale dell'autonomia regio­nale, cioè la assoluta eguaglianza giuridica delle regioni tra loro per tutto quanto riguarda l'assetto delle loro attribu­zioni, salva ovviamente la "specialità" eventuale del loro Sta­tuto[21].

     Si è innescato così un classico circolo vizioso, per cui l'inaffidabilità politica delle regioni, nel loro complesso, ha legittimato l'estensione, in nome del prevalente interesse nazio­nale, del "protettorato" statale su di esse; ma l'estensione del "protettorato" ha contribuito a mantenere modesto il senso poli­tico dell'istituto regionale. Sicché non c'è da stupirsi che non si sia sviluppata una classe politica regionale. Che gli stessi partiti (alla pari di tutte le altre organizzazioni di interessi) non si siano dotati di una struttura regionale concepita davvero come un livello superiore e dirigente rispetto al tradizionale li­vello comunale o provinciale. Che perciò le scelte politiche fon­damentali (inclusa la costituzione delle maggioranze di governo) siano state tutte sistematicamente avvocate dalle segreterie nazio­nali[22]. Che ogni conflitto significativo tra interessi orga­nizzati cerchi sistematicamente composizione nelle sedi istituzio­nali na­zionali, con la conseguenza che, raggiunta la faticosa me­diazione, questa avrà la "veste" di norma statale, che dovrà es­sere rispet­tata dal legislatore locale, per evitare che il con­flitto si ria­pra a livello periferico o che si impongano, come si suolo dire, soluzioni "a pelle di leopardo"[23]. Che le regioni non abbiano svi­luppato una propria classe politica, perché nella car­riera poli­tica le cariche regionali non sono un obiettivo finale, ma una tappa di un unico cursus honorum, nel quale il sindaco del capo­luogo conta di più dell'assessore regionale, e per il presi­dente della giunta regionale è del tutto concepibile abbandonare la sua carica per il seggio parlamentare, sperando di raggiungere un sot­tosegretariato; la stessa regione è spesso scavalcata come li­vello di intermediazione con lo Stato, poiché sul suo territorio subisce la concorrenza del deputato locale, più avanti in grado nel cursus honorum del partito[24].

     Non c'è affatto da meravigliarsi che tutto ciò abbia inciso sulla configurazione che il potere legislativo della regione ha ricevuto in concreto. Da un lato, la continuità politica tra re­gione e Stato (continuità sia nel personale politico, che nella sistema­tica avocazione al centro delle decisioni locali cruciali) ha le­gittimato e incoraggiato forme che assicurassero anche la conti­nuità decisionale, attraverso la moltiplicazione delle sedi colle­giali e di procedimenti "misti"; dall'altro, lo scarso pre­stigio dell'ente regionale come ente di governo ha motivato (e giustifi­cato agli occhi della stessa Corte cost.) l'atteggiamento assai restio degli organi centrali a trasferire alle regioni le funzioni e l' amministrazione dei beni di maggior rilievo, senza almeno trattenere penetranti poteri di cogestione, di indirizzo-coordinamento e di sostituzione.

      Poiché tutti questi poteri si sono strutturati al di fuori di una previsione costituzionale, l'opera di definirli concettual­mente e di inserirli nelle griglie del sistema costituzionale è stata as­sunta dalla giurisprudenza cost.. La quale, in­fatti, è chiamata metodicamente a dirimere le controversie tra la regione, troppo spesso sterilmente ancorata alla difesa dell'assetto ortogonale tracciato dalla Costituzione, e lo Stato, che da quell'ortogonalità continuamente tende a sfuggire in nome di qual­cosa di essenzialmente fluido, qual'è l'interesse nazio­nale. L'imbarazzo della Corte è spesso fin troppo evidente; e tut­tavia non vi è oggi nulla di più solido e chiarificatore dei rap­porti Stato-regione che le categorie, i test e le dottrine che la Corte ha dovuto inventare e ha sviluppato pur con tanti ripensa­menti e incoerenze. Insomma, il diritto regionale è divenuto in massima parte diritto giurisprudenziale.

 

3. La riduzione della legislazione regionale alla disciplina "amministrativa". Il principio "chi paga ha la competenza".

Già nelle prime fasi di avvio dell'esperienza di decentramento regio­nale, quando cioè a funzionare erano solo (e neppure tutte) le re­gioni ad autonomia differenziate, si è operata una drastica ridu­zione dell'àmbito di operatività della legge regionale. Si trattò di un "prolungamento" del ragionamento attorno ai limiti "naturali" della potestà regionale, e alle "finalità per cui l'Ente Regione è stato creato"[25]: ragionamento che portava ad escludere la legislazione della regione, "il cui àmbito naturale è costituito dai rapporti di diritto pubblico"[26], da quei rapporti che non potevano assumere un trattamento differenziato da zona a zona, pena la rottura dell'ordinamento giuridico e l'istituzione di "gabbie" normative che avrebbero impedito - per usare la termi­nologia (di molto successiva) del diritto comunitario - la "libera circolazione" delle persone, delle merci e dei capitali.

     Questo ragionamento - formalmente condotto sulla base della (prevalente) tutela dell'unità dell'ordinamento giuridico e dell'eguaglianza dei cittadini[27] - ha portato innanzitutto ad escludere dalla potestà legislativa locale la "materia" penale, la disciplina dei rapporti di diritto privato, l'intero sistema della giurisdizione e, in larga parte, l'uso dello strumento tributario.

 

     A) Per la "materia" penale, l'esclusione significa che le re­gioni non possono assicurare il rispetto delle proprie disposi­zioni legislative impiegando lo strumento della sanzione penale. Nessuna facoltà, quindi, di introdurre nuove pene; ma anche nes­suna facoltà di modificare o estinguere la fattispecie incrimina­trice, fissata in via esclusiva dalla legge dello Stato anche lad­dove si tratti di materia in cui la regione può vantare potestà legislativa primaria[28]. Tutt'al più la regione può "integrare" la fattispecie penale con l'individuazione di singoli elementi della sua definizione, ma solo quando lo preveda la stessa legge sta­tale, subordinando gli effetti incriminatori ad atti amministra­tivi o legislativi delle regioni; oppure è ammesso che la legge regionale possa concorrere a definire elementi costitutivi (per es. "dovere", "atto d'ufficio" ecc.) in alcune ipotesi di reati contro la pubblica amministrazione o di norme penali "in bianco"[29]. In altri termini, alla legge regionale viene ricono­sciuto lo stesso spazio che, in materia penale, si suole attri­buire all'atto amministrativo, anch'esso abilitato ad integrare elementi della fattispecie penale[30].

     Per converso, il "limite" della legge penale opera anche nel senso di consentire allo Stato di riappropriarsi, attraverso l'introduzione di norme penali, di parte delle materie di compe­tenza regionale: qualificando o meno come reati determinati com­portamenti, il legislatore statale è infatti in grado di escludere il legislatore locale dalla loro disciplina[31]. E' vero che, se­condo le più recenti indicazioni della Corte Cost., il diritto pe­nale dev'essere l' extrema ratio, cui il legislatore può ricorrere solo per proteggere beni e valori di particolare significato per la vita sociale[32]; ma questa "dottrina", mentre è solo un pro­gramma di riduzione dell'attuale situazione di "inflazione iper­trofica" di norme penali, rappresenta un ulteriore elemento teo­rico che porta ad escludere nel modo più radicale l'intervento della re­gione in campo penale, priva com'essa è della visione ge­nerale che è implicata dalla politica criminale[33]

 

     B) Più complessa è l'esclusione dei rapporti di diritto pri­vato. Finché ad operare erano soltanto le regioni differenziate, la giurisprudenza cost. era piuttosto "aperta"[34]; anche se fin dalla prima sent. in materia (7/1956) la Corte aveva tracciato uno schema di ragionamento (bisogna badare alle finalità per cui l'Ente regione è stato creato, e queste non possono consistere che nel soddisfacimento di interessi pubblici) che anticipava una strategia argomentato, tutta basata sulla considerazione degli in­teressi in gioco, che avrebbe avuto gran successo in seguito. Una drastica inversione si è però avuta con l'avvento delle regioni or­dinarie. La sent. 154/1972 rappresenta un vero e proprio revire­ment, esplicitamente motivato dall'esigenza di rivedere l'intelaiatura teorica dell'argomento, in considerazione del "generalizzarsi" degli interventi regionali. I punti che la Corte fissa sono i seguenti: a) nessuna discriminazione può essere com­piuta tra regioni ordinarie e regioni speciali; b) "il diritto privato costituisce una materia a sé stante", "ben definita", nei cui confronti la connessione teleologica con la cura degli inte­ressi pubblicistici propri delle materie regionali non consente intromissioni; c) l'eccezionalità delle situazioni non può legit­timare il radicarsi di competenze extra ordinem: vi farà fronte la legge dello Stato, nei cui confronti le regioni non mancano di po­teri di iniziativa.

     Resta ovviamente da capire in cosa precisamente consista que­sta materia "ben definita", e in che misura in essa ricada la di­sciplina dei diritti soggettivi legati alla proprietà. Qualche elemento ce lo dà una recente sentenza della Corte (391/1989): "La preclusione al potere legislativo regionale di interferenze nella disciplina dei diritti soggettivi riguarda i profili civilistici dei rapporti da cui derivano, cioè  i modi di acquisto e di estin­zione, i modi di accertamento, le regole sull'adempimento delle obbligazioni e sulla responsabilità per inadempimento, la disci­plina della responsabilità extracontrattuale, i limiti dei diritti di proprietà connessi ai rapporti di vicinato, e via esemplifi­cando. Per quanto attiene, invece, alla notazione conformativa del contenuto del diritto di proprietà allo scopo di assicurarne la funzione sociale, la riserva di legge stabilita dall'art. 42 Cost. può trovare attuazione anche in leggi regionali, nell'ambito, s'intende, delle materie indicate dall'art. 117"[35].

 

     C) Integralmente sottratta alla competenza regionale è la di­sciplina del diritto processuale e dell'attività giurisdizionale. La riserva di legge dell'art. 108 Cost. è considerata come rife­rita esclusivamente alla legge statale[36], "alla quale compete in via esclusiva disciplinare in modo uniforme per l'intero territo­rio nazionale e nei confronti di tutti (art. 3 Cost.), i mezzi e le forme di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi (art. 24, 1 c., e 113 Cost.)"[37]: con la conseguenza che alla regione è impedito di interferire con la normativa (generale e speciale) dello Stato sull'ordinamento giurisdizionale, fosse pure con la semplice attribuzione di compiti nuovi agli uffici giudi­ziari[38].

 

     D) Altra limitazione drastica degli strumenti di cui dispone il legislatore regionale riguarda la materia dei tributi. L'argomento è tra i più frequentati dalla dottrina[39], ma merita un cenno qui perché la forte compressione dell'uso dello strumento tributario ha un riflesso importante non solo, come è ovvio, per l'autonomia finanziaria delle regione (argomento che va assai ol­tre alle questioni dell'autonomia normativa[40]), ma anche per la stessa configurazione della sua potestà legislativa. Gli Statuti speciali sembrano attribuire al legislatore locale una precisa competenza in materia[41], generalmente modellata sulla potestà le­gislativa concorrente. L'art. 119 , 1 c., si limita invece ad at­tribuire alle regioni ordinarie "autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica, che la coordi­nano con la finanza dello Stato, delle Province e dei Comuni".

     Benché la lettura di questa disposizione abbia dato àdito a molte interpretazione, spesso assai favorevoli alle regioni[42], la giurisprudenza cost. sembra suffragarne una molto limitativa, che circoscrive la competenza regionale ad una sorta di legislazione "attuativa", sia pure "necessaria" (stante il principio autonomi­stico posto dall'art. 119)[43]. Si tratta insomma della mera facoltà di variare l'importo delle imposte nei margini fissati dalla legge statale, senza potere innovare in alcun modo la tipologia dei tri­buti. Anche nelle regioni speciali (Sicilia esclusa), poi, la ca­pacità impositiva locale è fortemente diminuita dalla impossibi­lità di apportare modificazioni al regime delle imposte e delle tasse erariali; si riduce perciò alla sola introduzione di tributi nuovi non incidenti però su cespiti già considerati, anche solo in parte, dal legislatore nazionale[44].

     A parte ogni altra considerazione sui riflessi che questa im­postazione ha sull'autonomia finanziaria delle regione, non v'è dubbio che essa condizioni fortemente la stessa autonomia legisla­tiva. Resta infatti impedito alla regione l'uso di uno strumento tipico del potere pubblico (già essendole vietato l'impiego dello strumento penale), cui il legislatore tradizionalmente ricorre sia nell'àmbito della politica degli incentivi e dei disincentivi[45], sia nella politica della ridistribuzione del reddito[46].

 

     Non potendo incidere sui rapporti tra privati, non potendo operare efficaci ridistribuzioni del reddito, la legge regionale ha dovuto limitarsi, per riprendere la sentenza già citata, a ba­dare agli interessi per cui l'Ente è stato creato, cioè la cura degli interessi pubblici nei settori di competenza[47]. Ma anche in questa più ridotta prospettiva, il legislatore regionale ha dovuto fare a meno degli strumenti di costrizione, la sanzione penale e l'imposizione fiscale. Per cui non c'è affatto da stupirsi che la legge regionale, laddove non sia stata strumento di organizzazione dell'Ente, sia stata pressoché esclusivamente legislazione di ero­gazione.

     Ma proprio sul terreno della legislazione di spesa, divenuto per forza il terreno d'elezione della sua attività normativa, la regione ha visto allentarsi, sin quasi a dissolversi, i limiti di legittimità che ne stringevano la potestà legislativa. Il con­trollo governativo ha infatti consentito che la spesa regionale si estendesse oltre le materie di competenza (soprattutto in settori come il commercio e l'industria)[48] e, persino, fuori dai confini territoriali. La Corte Cost., da parte sua, ha giustificato questa espansione, fornendo i termini per la sua ricostruzione teorica: al di là delle competenze legislative e amministrative loro asse­gnate, infatti,  "sussistono interessi e fini rispetto ai quali le regioni stesse possono provvedere nell'esercizio dell'autonomia politica che ad esse spetta in quanto enti esponenziali delle col­lettività rappresentate"[49].

     Come si vede, il vecchio principio "chi paga ha la compe­tenza", che, in passato come oggi, è servito a giustificare il prolungamento dell'intervento di organi statali in materie di stretta competenza regionale[50], funziona anche a favore dell'autonomia regionale, sia pure delineando "un ruolo delle re­gioni soltanto integrativo e sussidiario, quando non meramente at­tuativo di decisioni che restano statali, conformemente ad una li­nea di fondo dell'ordinamento regionale italiano costituita dall' allargamento degli àmbiti materiali di competenza a scapito però della rilevanza dei poteri esercitabili"[51]. Il risultato è un qua­dro estremamente complesso (ulteriormente accentuato, come poi si vedrà, dalla  legislazione statale di settore), in cui non vi sono altre direttrici di orientamento per individuare la titolarità delle attribuzioni normative se non quella del tipo di interesse perseguito e della sua ragionevolezza.

 

4. Il "mito" della legge cornice e l'inevitabile "giurisdizionalizzazione" dei rapporti.

Uno degli elementi di maggiore fragilità teorica che contrasse­gnano il modello costitu­zionale dei rapporti Stato-regioni consi­ste nel rinvio sistema­tico, per la definizione di ognuno dei li­miti specifici dei di­versi livelli di potestà legislativa, ad uno dei concetti più equivoci della teoria delle norme: il concetto di 'principio'[52]. Ancorata ad un appiglio così fragile, l'intera ga­ranzia costitu­zionale della ripartizione delle attribuzioni è ri­masta condizio­nata dai criteri e dalle metodologie di avvalora­mento dei "princìpi".

     Questo vale anzitutto per i "princìpi fondamentali" stabiliti dalle leggi dello Stato nelle singole materie. Per lungo tempo si è ritenuto che il vero problema dell'autonomia regionale, prima e dopo l'istituzione delle regioni ordinarie, fosse dato dall' in­certezza del quadro normativo causato dal mancato adegua­mento al fenomeno regionale dell'ordinamento giuridico statale, interamente cresciuto nell'assoluta ignoranza delle esigenze dell'autonomia. Da cui l'attesa di un  intervento "salvifico" del legislatore or­dinario, di una riforma legislativa che avrebbe do­vuto rimodellare l'ordinamento, soprattutto (ma non solo[53]) in vi­sta di una chiara individuazione delle "cornici" di princìpi entro le quali la legi­slazione regionale avrebbe potuto dispiegarsi[54]: cornici, se fosse stato possibile, "irrigidite", poste cioè al ri­paro dall'erosione della legislazione speciale, le cui deroghe avrebbero potuto ren­dere nuovamente oscura e problematica l'individuazione dei prin­cìpi[55].

     L' attesa non era priva di conforto: perché ad essa potevano invitare, oltre ai lavori preparatori[56], le stesse parole della IX disc. trans. Cost., in cui si prevedeva infatti che, entro tre anni dalla entrata in vigore della Carta, lo Stato avrebbe ade­guato "le sue leggi alle esigenze delle autonomie locali e alla competenza attribuita alle Regioni". Prevalse la convinzione che questa disposizione preannunciasse appunto le leggi cornice[57]: tale interpretazione fu accolta dalla legge Stella[58], che, anzi, la tradusse in un divieto per le regioni di legiferare nella mate­ria (con eccezione per quelle minori) prima che la legge cornice fosse stata emanata. Anche la c.d. "legge finanziaria"[59], che pure abrogò questo divieto (condizionando l'esercizio della pote­stà le­gislativa regionale all'emanazione  non più delle leggi cor­nice, ma dei decreti di trasferimento delle funzioni), mantenne la "promessa" di un adeguamento dell'ordinamento statale all' autono­mia regionale. Persino la Corte Cost., del resto, ha più volte espresso la "preferenza" per una formulazione legislativa dei princìpi[60]: il che è ben comprensibile, se si pensa al ruolo che la Corte ha dovuto svolgere in (supposta) supplenza del legisla­tore.

     Come è noto, le "leggi cornice" iniziarono ad essere emanate con grande ritardo e solo per pochi settori[61]. Nel frattempo l'intera gestione del delicato compito di individuare, nella cao­tica disciplina statale di settore, i "princìpi della materia" è stato svolto dal contenzioso Stato-regione. Fondamentale è stato, di conseguenza, il ruolo giocato dal meccanismo di controllo pre­ventivo del Governo sulle leggi regionali[62]: il quale si presta a pratiche di contrattazione e di mediazione (che certo non favori­scono una chiara individua­zione dei "princìpi", valida per tutte le regioni)[63], e vi si pre­stava assai di più sino a quando resi­stettero due condizioni: la prassi della reiterazione del rinvio, avvalorata dalla Corte cost. sino al 1988[64]; e un ritardo ende­mico, di dimensioni rilevanti, della Corte stessa nel decidere dei ricorsi che le venivano propo­sti, ritardo che spesso rischiava di vanificare l'interesse della regione in un eventuale successo giu­diziale, facendole preferire più rapide mediazioni con la contro­parte[65]. Ma se la mediazione non funziona, i "princìpi" vengono accreditati, in ultima istanza, dalla Corte Cost., chiamata a di­rimere il contenzioso insorto.

     E' ovvio, però, che l'opera svolta dalla Corte non può che avere un carattere episodico, trattandosi di individuare di volta in volta, in considerazione della concreta controversia insorta e dei modi con cui essa è prospettata dal ricorrente, se una deter­minata norma sia o meno qualificabile come "principio"[66]. Dunque, tra il limite di legittimità dei princìpi e il limite di merito degli interessi si è verificata un'inversione paradossale dei ruoli e dei tempi: mentre l'interesse nazionale ha completamente smarrito, assieme al suo prevalente profilo politico, anche l'essenza di parametro di un giudizio concreto, che deve valutare di volta in volta quale degli interessi in gioco debba prevalere, ed è divenuto invece l' elemento principale del quadro precosti­tuito di legittimità delle leggi[67]; viceversa il principio della materia ha seguito l'itinerario opposto, passando dalla naturale condizione di limite precostituito alla discrezionalità del legi­slatore locale, a quella di risultato di un giudizio successivo, svolto caso per caso, in riferimento alle concrete scelte compiute dalla legge regionale. Del resto la Corte lo ha detto espressa­mente che "le censure di merito ... non si distinguono da quelle di legittimità per la natura sostanziale delle valutazioni da ope­rare, ma se ne differenziano soltanto per il dato formale che le regole o gli interessi assunti come parametro del giudizio non sono sanciti da alcuna norma della Cost. o anche di legge"[68]

     Che questo fenomeno sia imputabile al legislatore, colpevole di aver omesso di emanare le leggi-cornice, non è del tutto vero. Sinora, l'adozione delle leggi cornice[69] non ha affatto migliorato la situazione, se non per aver smitizzato le aspettative che la loro attesa aveva generato. Queste leggi non si limitano certo a compiere la ricognizione dei princìpi esistenti nella legislazione vigente[70] e, anzi, assai spesso non sono neppure rivolte, come primo obiettivo, a costituire il "quadro" dei princìpi che le leggi regionali dovranno rispettare. Sono leggi di riforma del settore, dirette, il più delle volte, ad introdurre nuovi assetti amministrativi e procedure di raccordo tra diversi livelli di go­verno[71]: in esse domina, semmai, l'intento di assicurare punti fermi nel delicato equilibrio degli interessi sociali in gioco (si pensi alle leggi sull'artigianato o sulla caccia), e solo seconda­riamente si affronta il problema di separare le competenze delle regioni da quelle dello Stato.

     Il risultato è che sulle nuove leggi sono migrati gli stessi problemi che si agitavano in precedenza: forse addirittura con qualche aggravante.

     Innanzitutto, queste leggi non sostituiscono mai integralmente la normativa precedente, ma le si sovrappongono; spesso, anzi, toccano argomenti che non combaciano con le "materie" regionali (il volontariato, gli handicap, il randagismo, ecc.). La loro ema­nazione, quindi, non semplifica affatto il quadro della norma­tiva vigente, ma più spesso lo complica: resta affidato pur sempre all'interprete il compito di scoprire quale parte della vecchia normativa sia stata sostituita dalla nuova, e in che rapporto si trovino i "princìpi" di questa con i "princìpi" di quella.

     Vi è poi il problema di distinguere, all'interno di corpi nor­mativi piuttosto complessi, ciò che può accreditarsi come "principio fondamentale" da quello che rimane normativa di detta­glio. Il legislatore statale non specifica quasi mai quali siano le norme-principio[72], ma si limita a corredare la disciplina legi­slativa con formule di stile che alludono alla funzione di "cornice" assunta dalla legge[73]. D'altra parte, la disciplina det­tata è solitamente una disciplina completa, la cui operatività non è condizionata dall'attuazione regionale: ciò sia perché è stata pensata come legge di riforma del settore, più che come legge-cor­nice destinata ad operare nell'àmbito dei rapporti tra Stato e re­gioni; sia perché è attraverso la posizione di norme di dettaglio, destinate ad essere superate dalla legislazione locale di attua­zione, che il legislatore statale persegue l'obiettivo di una pronta e uniforme applicazione della legge su tutto il territorio nazionale, non pregiudicative dall'eventuale inerzia del legisla­tore locale[74].

     Il terzo ordine di problemi nasce da una difficoltà oggettiva, non imputabile a scelte di tecnica legislativa, come forse sono le prime due. Ed infatti sono problemi ben noti anche alla dottrina meno recente[75]. Si tratta dei limiti cui soggiace il legislatore statale nella determinazione dei "princìpi fondamentali", limiti che pur devono sussistere, se non si vuole accettare l'idea che la linea di ripartizione delle attribuzioni tra Stato e regioni sia, non già fissata dalla Cost., ma liberamente modellabile dalla legge ordinaria. Sotto questo profilo, anzi, l'attuale tecnica le­gislativa attenua il problema, dato che, come già si è detto, solo in rari casi la legge-cornice individua specificamente i "princìpi": per la gran parte sono leggi di riforma il cui in­gresso nell' ordinamento non modificano in modo rilevante il pro­cesso sostanzialmente giurisprudenziale di accreditamento dei princìpi. Se essi possano essere espressi dalle singole disposi­zioni della legge sarà pur sempre la Corte a doverlo dire[76].

     Insomma, l'autoqualificazione di una legge come legge-cornice non sposta di molto i termini del problema[77]. La vera questione sorge invece laddove la legge, proprio come legge di riforma, miri ad estendere la propria portata vincolante sino ad obbligare anche le regioni dotate di potestà primaria[78]. Qui si pone un diverso problema di autoqualificazione, perché la legge statale, come sem­pre più spesso avviene, per un verso si definisce legge-cornice, per condizionare la potestà concorrente; ma per l'altro si quali­fica come "grande riforma economico-sociale"[79] o, persino, come fonte di "principi generali dell' ordinamento"[80], in modo da so­vrapporsi anche alla legislazione esclusiva. Ed è ovvio che per questa strada può procedere a gran passi l'opera di appiattimento della potestà primaria-esclusiva su quella secondaria-concorrente.

 

5. Il superamento del principio del terzo escluso, ovvero i vari volti dell'interesse nazionale: A) La conversione del limite di merito in limite di legittimità; B) La tecnica del "ritaglio" delle mate­rie.

Sin qui si sono ripercorse le vie at­traverso le quali l'organizzazione ortogonale del modello origina­rio di ripar­tizione delle attribuzioni ha subito, nell' applica­zione concreta, una così marcata attenuazione. Ma parallelamente si è messo in moto un processo di formazione di categorie estranee e concorren­ziali ri­spetto a quel modello, processo ispirato dall' esigenza di coordi­namento dei poteri e di tendenziale unità dell'ordinamento. In Italia, l'elaborazione delle categorie e de­gli strumenti attra­verso cui operano i meccanismi di coordinamento si è compiuta (e in buona parte si sta compiendo ancora) tutta at­traverso legisla­zione ordinaria e prassi amministrativa, restando interamente a carico della giurisprudenza cost. il compito della ricomposizione sistematica. Nella quale, la figura dell' interesse nazionale svolge una funzione centrale.

     Si è già accennato a come l'interesse nazionale fosse inizial­mente identificato con il parametro stesso del controllo di merito sulle leggi regionali[81]. Va ora chiarito come sia accaduto che il meccanismo previsto per un contrasto "politico", insorto a se­guito di specifiche scelte del legislatore locale, alle quali il Governo si oppone ritenendole contrastanti con il contingente in­dirizzo politico nazionale, chiamando ad arbitro il Parlamento, si tra­sformi in limite di legittimità, che presuppone la fissazione in via "generale e astratta" di àmbiti sottratti preventivamente all'autonomia regionale, con conseguente investitura della Corte cost. in caso di conflitto. E soprattutto vanno chiarite le moda­lità attraverso le quali l'interesse nazionale riesce at­tualmente a prevalere sull'autonomia regionale.

 

A) Il primo passo in questa strategia si è compiuto con l'inevitabile innesto di considerazioni relative al livello degli interessi nella definizione dei vari limiti di legittimità della legge regionale. Cinque le porte principali utilizzate per il transito dal merito alla legittimità.

     La prima porta è rappresentata dal limite territoriale[82], che fin dalla giurisprudenza più antica è stato innestato con valuta­zioni attorno alla dimensione degli interessi in gioco ed alla comparazione tra interesse regionale e interessi extra-regionali toccati di riflesso dalla legge locale[83].

     Attigua alla prima è la seconda porta, che collega la valuta­zione degli interessi al limite dell' art. 120 Cost.[84]: anche in questo caso il divieto di ostacolare il mercato nazionale ha ope­rato in modo analogo alla commerce clause americana (ed ai prin­cipi di liberalizzazione del Trattato europeo), nel senso cioè di indurre il giudice di legittimità a tener d'occhio anche e soprat­tutto le ripercussioni delle leggi regionali in termini di unità del sistema economico nazionale[85].

     La terza porta è offerta dal limite degli obblighi internazio­nali, rispetto ai quali la sussistenza di un prevalente interesse unitario sembra giustificata in se, almeno sino a dove sussista una possibilità effettiva che lo Stato venga chiamato a rispondere dei comportamenti delle regioni[86].

     La quarta porta si incardina sul sistema delle riserve di legge contenute nella Costituzione, nelle quali è implicita l'esigenza di un'eguale disciplina normativa della materia[87]. Da tempo la Corte ha smesso di sostenere che le riserve di legge im­pongano tutte e sempre che la disciplina sia dettata dalla sola legge statale[88]. E' vero piuttosto che la presenza di una riserva di legge comporta la necessità di valutazioni specifiche sulla ri­levanza degli interessi in gioco, potendo divenire un indice della prevalenza dell'interesse nazionale ad una disciplina unitaria[89].

     La quinta porta, infine, la più ampia, viene aperta attraverso la definizione delle materie di competenza regionale[90]. Le stesse espressioni impiegate dall'art. 117 Cost. (e dagli omologhi elen­chi contenuti negli Statuti speciali) richiamano la considerazione del livello degli interessi (i trasporti o le opere pubbliche "d'interesse regionale"): ma il meccanismo attraverso al quale la considerazione degli interessi è penetrata nella definizione delle materie si manifesta appieno nel particolare fenomeno noto come il "ritaglio delle materie".

 

B) La tecnica del c.d. "ritaglio delle materie" ha fortemente se­gnato il trasferimento delle concrete funzioni amministrative dallo Stato alle regioni speciali, già all'indomani dell'entrata in vigore della Costituzione[91]; ed è stata poi applicata con si­stematicità nei decreti delegati del '72, che hanno compiuto il primo trasferimento delle funzioni amministrative alle regioni or­dinarie[92]. Le materie regionali vengono "frantumate" "per riser­varne porzioni più o meno ampie alla competenza statale"[93]: sulla base di "un'ipotetica linea di confine data dagli interessi nazio­nali"[94], lo Stato stabilisce "quali parti, quali settori, quali aspetti di ognuna di tali materie debbano essere disciplinati in forma necessariamente unitaria", e perciò "insuscettibili di tra­sferimento alle regioni"[95]. Il fenomeno del ritaglio non è cessato neppure con il successivo trasferimento operato con il d.p.r. 616/1977, benché effettivamente ispirato all'esigenza di attri­buire alle regioni "settori organici" di competenza[96]. Da un lato, il d.p.r. 616 ha mantenuto la considerazione del "livello degli interessi" come fondamentale fattore di distinzione delle attribu­zioni nelle singole materie, aggiungendo anzi (dando corpo alla previsione contenuta nell'art. 118, 1° co., Cost.), accanto agli interessi nazionali e a quelli regionali, anche gli interessi (e le conseguenti attribuzioni) degli enti locali. Dall'altro, il complesso assetto delle attribuzioni, faticosamente composto dal decreto delegato, non ha alcuna possibilità di resistere (nonostante alcuni tentativi della dottrina di accreditare la tesi contraria[97]) all'erosione della legislazione di settore, che ne rimodella di continuo la fisionomia[98].

     Ed è proprio la legislazione di settore che, in nome dell'interesse nazionale, introduce tutte quelle forme e quei mec­canismi di collegamento e di sovrapposizione tra amministrazione statale e amministrazione regionale che rappresentano oggi il dato più evidente dello sfaldamento dell'impalcatura "euclidea" dell'autonomia regionale. Ne hanno divelto il cardine, cioè il principio del terzo escluso (le attribuzioni sono o dello Stato o della regione), apertamente sconfessato dalla proliferazione di funzioni che, proseguendo nella metafora della geometria, possono definirsi "frattaliche", frazioni di competenze, miste o eserci­tate in comune, che non possono ridursi a nessuna delle precise e distinte dimensioni considerate dalla Costituzione (Stato, regione e, forse, enti locali).

     Benché questi congegni operino sul piano dell' amministra­zione, ad essi un cenno conviene dedicarlo per le ovvie ripercus­sioni che hanno sull'autonomia legislativa della regione.

 

 

6.(Segue). C) La funzione di indirizzo e coordinamento; D) Il po­tere so­stitutivo.

C) Il più noto di questi meccanismi, e quello che più direttamente può influenzare, vincolandola, la legge regionale, è la funzione di indirizzo e coordinamento. "Inventata" dalla legge "finanziaria" (legge 281/1970, art. 17, lett. a) all'atto di dele­gare il Governo all'emanazione dei primi decreti di trasferimento; giustificata dalla Corte cost. come necessario "risvolto positivo" del limite degli interessi nazionali sin da una lontana, nota sen­tenza avente ad oggetto, appunto, la previsione della legge "finanziaria"[99]; ripresa e disciplinata in via generale dalla legge di delega 382/1985 (art. 3) e dal conseguente d.p.r. 616 (art. 4): la funzione di indirizzo e coordinamento è stata in tutti questi anni la questione forse più controversa in dot­trina[100] e più spesso affrontata in giurisprudenza[101] tra tutte quelle, e non sono certo poche, che sono sorte in riferimento al complicato assetto dei rapporti tra Stato e regioni. In realtà, il problema del fondamento, della forma, dei limiti e dell'efficacia degli atti di indi­rizzo e coordinamento rimase sul piano essen­zialmente teorico il problema rimase sino al 1982, quando la Corte ebbe il modo di ini­ziare a porre gli elementi di un test suffi­cientemente articolato cui sottoporre tali atti. Essi possono es­sere così compendiati:

 

     1. Quanto al fondamento costituzionale della funzione, la Corte è rimasta sempre ferma nell'affermare che il suo fondamento costituzionale stia in un "nucleo di fondamentali princìpi dell'ordinamento costituzionale" in cui domina il principio unita­rio san­cito dall' art. 5 Cost.[102]. Essa, cioè, non si pone come un limite "ulteriore" della autonomia legislativa, "ma piuttosto come pura espressione dei limiti costituzionalmente prefissati", con i quali sta in rapporto di "essenziale strumentalità"[103]. Tre gli impor­tanti corollari di questa impostazione:

         1.1. La funzione, si rivolge sia all'attività amministra­tiva che alla legislazione, entrambe restando vincolate da essa anche quando, come per lo più avviene, non è esercitata in forma legislativa ma amministrativa. E' un'implicazione di straordinaria importanza[104], dato che si viene così ad autorizzare un atto ammi­nistrativo a porsi come pa­rametro di legittimità di atti legisla­tivi, in apparente contrad­dizione con tutti i princìpi della ge­rarchia formale delle fonti. Questo spiega l'inflessibile atten­zione della Corte per i requi­siti formali dell'atto di indirizzo e coordinamento e per il ri­spetto del principio di legalità sostan­ziale, come ora si vedrà.

         1.2. Per la stessa natura dei princìpi costituzionali di cui è espressione, la funzione di indirizzo e coordinamento opera nei confronti dell'autonomia regionale quale sia il livello della potestà esercitata. Quindi anche la potestà legislativa primaria o esclusiva ne rimane compressa[105]: l'unica privilegio che la Corte sembra disposta a riconoscere in questo caso è un controllo più severo sui contenuti dell'atto governativo.

         1.3. La Corte è ferma nel ritenere che nell'esercitare i suoi poteri il Governo debba contemperare le esigenze dell'unità con quelle dell'autonomia. Ciò comporta per la Corte, in sede di valutazione della legittimità degli atti di indirizzo e coordina­mento, un giudizio di bilanciamento degli interessi contrapposti, basato sul criterio della ragionevolezza: la Corte esamina i con­tenuti prescrittivi di questi atti per valutare se e in che misura corrispondano ad "interessi unitari non frazionabili", quale mar­gine di autonomia essi lascino al legislatore regionale, in che misura essi corrispondano al principio di "leale cooperazione", ecc.[106].

 

     2. Requisito imprescindibile di validità degli atti governa­tivi è il rispetto del principio di legalità sostanziale: essi de­vono fondarsi su una specifica previsione di legge, che deve con­tenere anche i criteri guida per l'esercizio dei poteri attri­buiti, poiché spetta al legislatore "discernere le esigenze unita­rie"[107]: ed è perciò alla legge, non all'atto governativo, che va fatto risalire il vincolo apposto alla potestà legislativa regio­nale. La violazione del principio di legalità sostanziale diviene perciò il motivo più frequente di annullamento degli atti governa­tivi (in sede di con­flitto di attribuzione)[108]. Spesso però accade che la Corte sia già stata chiamata in precedenza (in sede di giu­dizio di legittimità) a dichiarare se e in che limiti la astratta previsione legislativa possa considerarsi un fondamento legisla­tivo sufficiente per l'emanazione di atti di indirizzo e coord., sicché poi, nell'eventuale conflitto di attribuzione, si trova ad applicare il suo precedente specifico[109].

 

     3. Altro requisito riguarda la forma dell'atto governativo, che non può essere emanato con decreto ministeriale, ma richiede, di regola, la delibera del Consiglio dei ministri[110] (anche se poi restano da giustificare atti ministeriali di tipo regolamentare[111] o di "coordinamento tecnico"[112]). Questo requi­sito è per sua na­tura suscettibile, come il precedente, di veri­fica "formale", che può essere condotta senza complesse valuta­zioni in termini di equilibrio di interessi. Perciò è oggetto di attento controllo da parte della Corte, che lo richiama spesso a motivo di dichiara­zione di illegittimità, oltre che dell'atto go­vernativo[113], della stessa legge istitutiva del potere[114].

 

     Forse i criteri posti dalla Corte a fondamento del suo scruti­nio sugli atti governativi di indirizzo e coordinamento possono sembrare un po' evasivi e di scarsa tenuta: ed è questo che si è assai spesso detto da parte dei commentatori della giurisprudenza cost. Ma non è così: se si esaminano le sentenze più recenti si potrà riscon­trare che gli atti governativi incappano sempre più spesso nelle maglie, evidentemente abbastanza strette, del test: nel biennio 1991-92, per es., ben 10 ricorsi su 11, mossi dalle regioni contro atti amministrativi di indirizzo e coordinamento, hanno avuto successo, a di­mostrazione di come ormai le regioni abbiano impa­rato ad usare le regole giurisprudenziali. C'è da aggiungere anzi che molto spesso le regioni giocano d'anticipo, impugnando già la legge istitutiva del potere di indirizzo e coordinamento, in modo da provocare la Corte, se non a sconfessare l'attribuzione al governo dei rela­tivi poteri, al­meno a "interpretarli" in senso restrittivo[115].

    

D) Attiguo e, spesso, intrecciato con l'indirizzo e coordinamento è un altro potere che le leggi statali conferiscono al governo: si tratta del potere sostitutivo, ultima voce di questo elenco, in­completo e sin troppo schematico, dei modi "tipici" in cui si ma­nifesta la preva­lenza dell'interesse nazionale sulle ragioni dell'autonomia. L'istituto nasce con la funzione specifica di ga­rantire il ri­spetto degli obblighi comunitari da parte delle re­gioni, in modo che lo Stato possa intervenire tempestivamente per rimediare all' inerzia della regione, scongiurando così il peri­colo di dover ri­spondere per inadempimento[116]. Ma l'evoluzione ne ha allargato di molto il campo di applicazione[117] e trasformato la funzione, cre­ando una saldatura (che per altro trova preciso ri­scontro nella giurisprudenza cost.[118]) tra l'attività di indirizzo e coordinamento e l'intervento sostitutivo. Il che, ovviamente, ha una spiega­zione[119]: entrambi gli strumenti servono ad assicurare quell'esigenza di coordinamento e di coerenza del sistema che nella Costituzione non trova altra strumentazione se non, appunto, il limite dell'interesse nazionale. Da un lato, in sede di indirizzo e coordinamento, il governo elabora norme (aggiuntive rispetto ai princìpi fissati dalle leggi) che servono a definire standard di comporta­mento cui devono conformarsi le regioni; dall'altro, esercitando il potere sostitutivo, lo Stato si garantisce che il quadro norma­tivo definito per legge o con gli atti governativi sia non solo rispettato come limite "negativo" (le violazioni del quale si ri­fletterebbero infatti sulla validità degli atti regionali dif­formi) ma anche applicato "in positivo" (l'inerzia giustificando la sostituzione)[120].

     Benché il potere sostitutivo agisca, almeno in linea di prin­cipio, in via amministrativa, vi è un corrispettivo sul piano de­gli atti legislativi, l'emanazione di norme statali di dettaglio con valore suppletivo: problema cui già si accennato a proposito dei contenuti che presentano di fatto le leggi cornice[121] e su cui si ritornerà al § 9.

 

     Come si vede, infiniti sono i volti e le sfumature che assume l'interesse nazionale: del resto, come ha avvertito la Corte, "l' interesse nazionale non presenta affatto un contenuto astratta­mente predeterminabile né sotto il profilo sostanziale né sotto quello strutturale. Al contrario, si tratta di un concetto dal contenuto elastico e relativo, che non si può racchiudere in una definizione generale dai confini netti e chiari"[122]. Com'era già stato intuito da Paladin[123], il limite degli interessi si risolve in una "comparazione dei vantaggi" o - con un linguaggio più alla moda - in un bilanciamento degli interessi, largamente pervaso di valuta­zioni di ragionevolezza[124]. Esso presenta elementi "fissi" di giu­dizio[125], che in larga parte sono gli stessi elaborati per il giu­dizio sugli atti di indirizzo e coordinamento (infrazionabilità degli inte­ressi; arbitrarietà o pretestuosità delle soluzioni le­gislative imposte dallo Stato; sopravvivenza di margini suffi­cienti di auto­nomia regionale e/o rispetto del principio di leale cooperazione; rispetto del principio di legalità; indisponibilità di soluzioni meno "costose" per l'autonomia regionale[126]): ma viene applicato con maggiore o minore severità a seconda degli in­teressi coin­volti[127] o della particolarità della situazione[128].

 

 

7. Il problema degli "obblighi internazionali": A) Le attività in­ternazionali delle regioni.

Una riflessione a parte merita il c.d. "limite degli obblighi in­ternazionali", per­ché la sua appli­cazione è divenuta uno dei prin­cipali fattori, ad un tempo, del superamento delle coordinate di individuazione delle competenze regionali e del livellamento (verso il basso, ovvia­mente) delle potestà legislative regionali. E' un limite che tende a confon­dersi con quello dell'interesse na­zionale, una volta che questo si è organizzato come limite di le­gittimità: si potrebbe dire che il limite degli obblighi interna­zionali altro non sia se non un aspetto particolare e "privilegiato" dell'interesse nazionale.

     Il limite degli obblighi internazionali, essendo basato sul principio dell'esclusiva appartenenza allo Stato della soggetti­vità di di­ritto internazionale, ha due profili, strettamente con­nessi: si­gnifica anzitutto l'attribuzione esclusiva allo Stato del treaty - making power, cioè della capacità di contrarre obblighi e di assu­mere responsabilità in campo internazionale, con esclusione per­ciò, da questo àmbito, di soggetti che, come le regioni, non sono "sovrani", ma enti derivati dallo Stato stesso; significa, poi, che le regioni non possono provocare situazioni tali da coin­volgere la responsabilità dello Stato come soggetto di diritto in­ternazionale, derogando con proprie norme alle norme statali di esecuzione degli obblighi assunti con i trattati.

 

A) Quanto alle attività internazionali delle regioni, va detto che, a partire dall'art. 4, II° c., del d.p.r. 616/1977[129], le re­gioni si sono viste riconoscere qualche spazio di iniziativa, sia pure assai ridotto. Ancora una volta però è toccato alla Corte cost. il compito di disegnare il quadro analitico dei poteri "esteri" delle regioni. In sintesi, il quadro at­tuale è il se­guente.                     

     La Corte di­stingue tre tipi di "attività" di rilevanza inter­nazionale, ognuna sottoposta ad un preciso regime, quanto ai rap­porti tra Stato e autonomia regionale:

     a) le attività internazionali che comportano esercizio del c.d. "potere estero", e che consistono essenzialmente nella stipu­lazione di patti e trattati, cioè nell'assunzione di impegni dei quali risponde ne­cessariamente lo Stato, unico soggetto dell'ordinamento interna­zionale. Il regime specifico è di assoluto monopolio statale, con esclusione di qualsiasi attività regionale suscettibile, appunto, di creare obblighi di diritto internazio­nale[130].

     b) le attività "promozionali" legate "da un rigoroso nesso strumentale con le materie di competenza regionale, ossia qual­siasi comportamento diretto, in tali settori, allo sviluppo econo­mico, sociale e culturale nel territorio dell'ente locale"[131]. Qui vale il regime dell'intesa (introdotto dall'art. 4, 2 del d.p.r. 616/1977), che si compone di un elemento "negativo" (la possibi­lità di un veto, a tutela degli in­teressi di politica internazio­nale dello Stato) e di uno "positivo", rivolto all'esigenza di coordinare le attività delle varie strutture "di promozione"[132]. A conferma di ciò, la sent. 472/1992 dice che il consenso del go­verno (all'opposto di quanto avviene per le atti­vità sub c) "dev'essere manifestato in forme esplicite".

     c) le attività "di mera rilevanza internazionale". Teorizzate come categoria autonoma per la prima volta nella sent. 179/1987, esse sono rimaste sempre, come riconosce la stessa Corte[133], "di più in­certa classificazione". Non è possibile tipizzarle, perché sem­brano definibili solo in negativo, come ca­tegoria residuale[134]. Il regime delineato dalla Corte cost. è sostanzialmente quello di un' autorizzazione assistita dal meccanismo del silenzio-as­senso. La regione deve dare "ragionevole preavviso", motivato; lo Stato deve dare l'assenso (che potrà "esser manifestato anche in "forme implicite"[135]), o vietare l'iniziativa, se la rite­nuta "inconciliabile con l'indirizzo politico generale": ma in questo secondo caso, in applicazione del principio onnipresente di "leale cooperazione", un'adeguata motivazione è d'obbligo[136].

 

     Anche la giurisprudenza cost. lascia però nell'ombra un punto di grande rilevanza, impostato in maniera assai discuti­bile in un obiter dictum della sent. 179/1987. Si tratta delle rela­zioni delle regioni con la CE, che la sent. 179 parifica (assieme ai rapporti che le regioni intrattengono nell'ambito della conven­zione europea per la cooperazione transfrontaliera: terza, e an­cora diversa categoria di attività) alle attività pro­mozionali.

     La parificazione può riguardare solo il regime giuridico cui dovrebbero essere sottoposte queste attività regionali, ma certo non anche la ratio che quel regime giustifica. Nei termini del di­ritto comuni­tario sarebbe certamente giudicato, infatti, come un'infrazione alla stessa "filosofia" della Comunità che l'Italia tratti le re­lazione delle regioni con gli organi (ma anche con i partner) eu­ropei come rapporti di "diritto internazionale", equi­parati dun­que, quanto a disciplina, alle relazioni con qualsiasi organismo extracomunitario. La vecchia giustificazione di questa parifica­zione, basata sul dogma dell'esclusiva responsabilità dello Stato per gli obblighi internazionali, non sembra più ade­guata ai tempi dell'Unione europea, e rischia di riflettersi in una grave menomazione dell'autonomi legislativa regionale in senso lato. Infatti, la necessaria interposizione dello Stato si ha non soltanto in fase "ascendente", cioè nei procedimenti decisionali di formazione delle politiche comunitarie, ma persino nelle proce­dure di notificazione delle leggi di intervento economico delle regioni e nel contraddittorio che può seguirne davanti alla Commissione CE. Che in questo caso sia il governo a rap­presentare gli interessi della regione è evidentemente una solu­zione priva di senso, perché esclude che vi possa essere, tra Stato e regione, una legittima diversità di posizioni, ed anche un conflitto di in­teressi che però non tocca minima­mente la "politica estera" (e la relativa responsabilità dello Stato sul piano inter­nazionale), bensì, semmai, la ripartizione interna delle attribu­zioni o le scelte di politi­ca economica.

     Solo un' incomprensibile accondiscendenza delle regioni fa ri­manere in piedi una preclusione la cui irrazionalità si manifesta appieno quando si rifletta sul fatto che l'attenzione sempre più scrupolosa con cui la Commis­sione CE colpisce gli aiuti pubblici alle imprese, potenzialmente di­storsivi della concorrenza, non ri­sparmia più, ormai, nep­pure i contributi e le agevolazioni fi­nanziarie che le re­gioni elargi­scono a sostegno delle imprese, per molti anni trascurati dai con­trollori. L'integrazione del mercato eu­ropeo rischia dunque di paraliz­zare uno degli strumenti più uti­lizzati tra quanti sono rimasti a dispo­sizione del legislatore re­gionale[137].

 

 

8. (Segue). B) L'attuazione delle norme CEE.

B) Problema diverso è la posizione delle regioni di fronte all' attuazione degli obblighi internazionali, che è poi l'aspetto che più direttamente si riflette sull' autonomia legislativa. Benché sia questo un problema generale, che coinvolge tutti i tipi di im­pegno che lo Stato assume nell'ordinamento internazionale, non c'è dubbio che il suo versante di maggior rilievo sia quello che at­tiene all'attuazione delle norme CEE[138].

     L'attuale assetto dei rapporti tra Stato e regioni nell' at­tuazione delle norme comunitarie è venuto consolidandosi in uno schema sufficientemente preciso e stabile nel tempo a partire dalla legge n. 153/1975  (che  dava  attuazione alle direttive CEE in materia di strutture agricole).  Quella legge era il prodotto di una complessa trattativa tra Stato e regioni, volta a superare l'atteggiamento di netta chiusura che lo Stato aveva inizialmente tenuto, affermando il proprio monopolio per tutto quanto attenesse all'adattamento del diritto interno alla normativa comunitaria. Il pregio di quella legge era di individuare strumenti capaci di ga­rantire l'interesse dello Stato, quale soggetto di diritto inter­nazionale (e comunitario) che in quell'ordinamento risponde della completa esecuzione nel diritto interno degli impegni assunti, senza appiattire l'autonomia regionale al solo esercizio di fun­zioni amministrative delegate. Trovati il punto di mediazione e gli strumenti adeguati, furono fissate alcune regole della coope­razione Stato‑regione nell' attuazione della normativa comunitaria che vennero riprese dalla l. 382/1975 e definitivamente messe a punto dal d.p.r. 616/1977. Lo schema era il seguente:

     a) sono trasferite alle regioni le funzioni relative all' ap­plicazione dei regolamenti CEE, senza ulteriore mediazione da parte di atti statali;

     b) sono trasferite alle regioni le funzioni relative all' at­tuazione delle direttive CEE, purché esse siano già state recepite con legge statale, la quale deve fissare espressamente i princìpi che la regione dovrà rispettare, nonché la disciplina di detta­glio, che verrà applicata sinché la regione non adotterà proprie norme (su questo meccanismo, v. infra, § 8);

     c) agli organi statali sono riconosciuti poteri sostitutivi nei confronti di eventuali inadempienze regionali (su questo mec­canismo, v. supra, § 5, punto D).

     Al modello predisposto dal d.p.r. 616[139] sono stati apportati in seguito alcuni perfezionamenti e marginali correzioni. La legge 183/1987 ha consentito alle regioni speciali, nelle materie di competenza esclusiva, di dare immediata attuazione alle raccoman­dazioni e alle direttive comunitarie, salvo adeguarsi alle succes­sive leggi dello Stato, "nei limiti previsti dalla Costituzione e dai relativi Statuti speciali" (art. 13). La Corte cost., con la  sent. 304/1987[140] ha chiarito la distribuzione dei compiti tra Stato e regioni in presenza di regolamenti CEE non immediatamente applicabili, riconoscendo alle regioni la facoltà di porre le norme necessarie a rendere operativi i regolamenti "non autosuffi­cienti", salvo il potere dello Stato di  intervenire  per garan­tire il corretto e puntuale adempimento degli obblighi comunitari (ed anche,  quando vi sia un "interesse unitario",  la attuazione uniforme nell'intero territorio nazionale), attraverso le legge o un atto di indirizzo e coordinamento

     Infine la legge 86/1989 (c.d. legge "La Pergola"), pur intro­ducendo le note novità circa i meccanismi di attuazione delle di­rettive, ha sostanzialmente confermato l'impianto precedente[141]. I punti fondamentali che caratterizzano i poteri regionali nell'attuazione delle norme comunitarie possono quindi essere così riassunti:

     a) per quanto riguarda l'attuazione dei regolamenti CE, resta ferma la competenza regionale a disporre gli strumenti per la loro applicazione[142];

     b) le sole regioni speciali, nelle materie "esclusive", pos­sono dare immediata attuazione alle direttive CE, senza attendere l'intermediazione statale. Le regioni ordinarie invece (e quelle speciali, non dotate in materia di potestà esclusiva) devono at­tendere l'atto statale di attuazione o, in assenza di questo, pos­sono dare attuazione alla direttiva "dopo l'entrata in vigore della prima legge comunitaria successiva alla notifica della di­rettiva"[143];

     c) la legge comunitaria o, comunque, la legge statale di at­tuazione indica le disposizioni di principio non derogabili dalla legge regionale (quale sia il livello della potestà legislativa di cui essa è espressione) e che prevalgono sulle leggi regionali eventualmente già emanate[144];

     d) se il legislatore regionale non si attiva, trovano applica­zione le  norme "di dettaglio" della legge statale (o del rego­lamento governativo, nel caso si sia data attuazione alla diret­tiva per via "delegificata"[145]).

 

     Il sistema descritto non è del tutto convincente, perché sem­bra reggersi su alcuni equivoci teorici che, al solito, ne minano l'operatività. Esso traccia linee di differenziazione tra regioni e di delimi­tazioni delle loro potestà che non hanno molto senso[146]. Per esempio, se quello che impe­disce ad una regione di interve­nire au­tonomamente in materie inte­ressate dalle norme CE è davvero il li­mite degli "obblighi inter­nazionali" - limite "comune"[147], che si ap­plica a tutte le regioni, quale ne sia il livello di autonomia, per il fatto stesso di es­sere "regioni", cioè enti derivati privi di soggettività inter­nazionale[148] - non sembra allora molto coerente differenziare le potestà normative di prima attuazione delle direttive CE sulla base del livello di po­testà legislativa assegnata alla regione nella materia in que­stione. E non ha senso nemmeno mantenere una così ac­centuata di­stinzione tra l'applicazione dei regola­menti CE e l'attuazione delle diret­tive, quando è a tutti noto - e dalla stessa Corte cost. ripetutamente affermato[149] - che tra le due fonti non esi­stono diffe­renze pregiudiziali di effetti, ma che è ai conte­nuti e alle si­tuazioni concrete, e non al nomen juris, che bisogna guar­dare.

     Comunque, il fatto che la legislazione attualmente in vigore pretenda di riservare alla sola competenza piena o esclusiva la possibilità di legiferare precedendo il legislatore nazionale,  non comporta a contrario che negli altri casi alle Regioni sia preclusa qualsiasi possibilità attrattiva. Se anche non si vuole accettare la tesi di chi ha letto nella sent. 304/1987 della Corte cost.  un principio che estende a tutte le Regioni e per tutti i livelli di potestà i poteri di attuazione degli atti comunitari (direttive incluse) senza interpositio statale[150], va riconosciuto però che essa ha più di un punto di appiglio.

     In fondo, alle regioni è sempre consentito di legiferare nelle materie in cui vantino competenza concorrente, anche in assenza delle leggi‑cornice che fissano i princìpi fondamentali[151]. Anzi, si può dire di più: le regioni si trovano strette dai meccanismi elaborati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia per "forzare" l'applicazione del diritto comunitario e assicurarne la prevalenza sul diritto nazionale. Soprattutto il meccanismo dell' "effetto diretto" comporta un'obbligo per tutte le amministrazioni nazionali di applicare la norma comunitaria che ne sia dotata, di­sapplicando qualsiasi norma interna contrastante[152]. Siccome anche le strutture regionali sono "giuridicamente tenute"[153] ad appli­care la norma comunitaria, pare davvero insostenibile che a rego­lare l'applicazione corretta della norma CE la regione non possa provvedere con legge, anziché con circolari o prassi amministra­tive, "per natura modificabili a piacimento dell' amministrazione e prive di una pubblicità adeguata"[154].

 

 

9. La legge regionale nel sistema delle fonti: verso un diritto regionale "post-euclideo".

Il problema di come la legge regionale si inserisca nel si­stema delle fonti del diritto ha impegnato a fondo la dottrina nei primi lustri di applicazione della Costituzione. Siccome le re­gioni or­dinarie erano ancora lungi da essere istituite, e mancava perciò (in vigenza della "legge Scelba"[155]) ogni esperienza con­creta di convivenza della legge regionale con la legge statale (convivenza che è tipica soprattutto della legislazione concor­rente), il di­battito si sviluppò tutto lungo il tracciato teorico della rico­struzione di una sistema delle fonti che fosse in grado di spie­gare la presenza di un atto (la legge regionale) recante tutti i contrassegni formali della legge "in senso tecnico"[156], ma, allo stesso momento, legato da un rapporto di soggezione di tipo gerar­chico con la "legge" per antonomasia, la legge del Parlamento na­zionale. Le contrapposte tesi di chi sosteneva l'equiparazione dei due atti e di chi, all'opposto, ne differen­ziava la collocazione nella gerarchia delle fonti (dato il condi­zionamento della legge "concorrente" da parte della legge-cornice) furono, più che conci­liate, superate da Crisafulli, con l'introduzione del criterio della "competenza"[157]. Ma, ciò nono­stante, la prassi legislativa successiva all'istituzione delle re­gioni ha posto problemi pratici tali da rimettere in seria discus­sione l'intera impalcatura teo­rica ereditata.

     Ovviamente non è più in discussione l'appartenenza della legge regionale al genus della legge formale. Di questa, la legge regio­nale possiede tutti i contrassegni che ne connotano il regime: tant'è che la Corte ha più volte affermato che la legge locale soddisfa le riserve di legge poste dalla Costituzione[158], così come ha ribadito in più occasioni che essa non può essere mai di­sapplicata dai giudici o dall'amministrazione, quando fosse rite­nuta illegittima[159]. I problemi più urgenti attengono invece ai delicati rapporti che si creano nella successione tra legge regio­nale e norme statali, e viceversa.

     Il primo problema si pone a proposito del mutamento dei prin­cìpi fondamentali della legislazione statale. Quando una nuova legge statale cambia la "cornice" dei princìpi della materia, cosa avviene delle legislazione regionale precedente? L'art. 10 della legge 62/1953 dice, al primo comma, che le leggi che modificano i princìpi fondamentali "abrogano le norme regionali che siano in contrasto con esse"; aggiungendo poi, al secondo, che le regioni "dovranno portare alle leggi regionali le seguenti necessarie mo­dificazioni entro novanta giorni". Molto si è discusso sul signi­ficato e sulla stessa legittimità costituzionale di queste dispo­sizioni. Ma la Corte cost.[160] le ha giustificate: non essendovi separazione completa di competenza in presenza (almeno) di potestà "concorrente", le leggi dello Stato e quelle delle regioni formano un corpo unico[161], al cui interno la successione delle leggi nel tempo è regolata dai criteri tradizionali dell'abrogazione[162]. Il che significa, però, che la nuova legge statale abrogherà le vec­chie norme regionali contrastanti solo quando siano autoapplica­tive[163], abbiano cioè quei requisiti "assai più limitati" che, come ebbe a dire la Corte nella sua prima sent., differenziano il campo di applicazione dell'abrogazione per incompatibilità dal campo della illegittimità costituzionale[164]. In caso contrario, le due leggi, eterogenee quanto a contenuto (una ponendo i princìpi, l'altra il dettaglio), convivono, pur se non compatibili, sino alla modificazione delle norme regionali o alla dichiarazione di illegittimità di esse.

     Anche per ovviare alla complessità di questo quadro di rap­porti (oltre che per la scarsa sensibilità verso le ragioni dell'autonomia che il legislatore nazionale è solito manifestare), nella prassi legislativa è invalso l'uso di corredare le leggi "cornice" di norme di dettaglio autoapplicative[165]. Esse, per la loro stessa natura, sono in grado di abrogare le norme regionali preesistenti, se in contrasto: ma, a loro volta, sono abrogabili dalle successive norme regionali.

     Questo meccanismo, inizialmente previsto nell' àmbito del processo di attuazione delle norme comunita­rie[166], si è rapidamente diffuso nella legislazione statale. Esso è stato avvalorato dalla Corte cost.: "la legge dello Stato (non) deve essere necessariamente limitata a disposizioni di principio, essendo invece consenti­to l'inserimento anche di norme puntuali di dettaglio, le quali sono efficaci soltanto per il tempo in cui la re­gione non abbia provveduto ad adeguare la normativa di sua competenza ai nuovi princìpi dettati dal Parlamento"[167]. Anche qui, come quando entra in gioco la considerazione dell'interesse nazionale nei suoi vari volti, la legittimazione dello strumento sta nel fine a cui è preordinato, ossia la coerenza e l'efficienza del sistema. Lo spiega la stessa sent. della Corte, ricorrendo al classico argomento ab absurdo: se questo meccanismo non potesse operare, "si perverrebbe all'assurdo risultato che la preesistente legislazione regionale, in difetto del necessario adeguamento a quella statale successiva, vanificherebbe in realtà quest'ultima, i cui (nuovi) princìpi resterebbero senza effettiva applicazione, sicché risulterebbe compromessa l'intera regolamentazione della materia alla quale si riferiscono".

     L'introduzione di questa tecnica legislativa per un verso sem­plifica, per un altro complica il problema della successione nel tempo di norme statali e norme regionali. Lo semplifica perché fa sì che il rapporto non corra più tra norme (statali) di principio e norme (regionali) di dettaglio - entità disomogenee la cui con­correnza sarebbe dominata dal principio della resistenza della norma speciale a quella generale successiva - bensì tra norme tutte di dettaglio. Le norme della nuova legge statale si sosti­tuiscono subito alle precedenti norme regionali, ma a sua volta il legislatore locale può rimpiazzarle in seguito, emanando nuove norme regionali. La Corte non qualifica tecnicamente il fenomeno della doppia sostituzione di norme, ma sembra che esso possa es­sere ricostruito così: la legge statale abroga immediatamente le norme regionali contrastanti; la successiva legge regionale deroga alla legge statale, che pertanto resta nell'ordinamento con valore suppletivo, pronta a riespandersi nel caso in cui, per qualche mo­tivo (abrogazione o dichiarazione di illegittimità), la disciplina regionale venga a mancare[168].

     Ma la compresenza di un doppio ordine di regole, entrambe di dettaglio, complica, oltre che l'applicazione della nuova norma­tiva[169], anche i rapporti tra legge statale e legge regionale, rendendo più confuso il quadro normativo. Va notato, infatti, che: a) le norme regionali successive sono emanate per disporre in senso diverso da quelle statali "suppletive", e ad esse si sosti­tuiscono; b) le norme regionali non possono però derogare ai prin­cìpi fondamentali fissati dalla legge statale[170]; c) se la norma regionale contrasta con i princìpi della legge statale è invalida­bile, ma tuttavia resta in vigore e va applicata, in deroga alle norme statali di dettaglio[171], sino all'eventuale dichiarazione di illegittimità da parte della Corte cost.; d) l'irrilevanza della autoqualificazione delle norme come princìpio[172], e l'irrimediabile incertezza su cosa debba intendersi nella legge statale per principio (inderogabile) o per dettaglio (derogabile), rende assai incerta la regola di coesistenza dei due ordini di norme.

     Anche in altri settori dell'ordinamento si manifesta il feno­meno della coesistenza di un doppio ordine di norme: tipico è il caso del rapporto tra norme comunitarie con effetto diretto e norme interne. Ma mentre in questo caso, secondo quanto ha detto la ben nota sent. 170/1984 della Corte, si applica rigidamente il criterio della competenza, per cui il soggetto dell'applicazione ha solo il compito di considerare a quale dei due ordinamenti spetti la disciplina della materia, tra Stato e regione non è con­figurabile una separazione altrettanto netta.

     La dottrina, infatti, tende ormai a non parlare più di separa­zione di competenza, ma di semplice preferenza per la legge regio­nale[173]. E' attraverso questo schema che si giustifica, da un lato, l'emanazione di norme statali di dettaglio (che sarebbero considerate illegittime, in regime di separazione, perché invasive della sfera regionale) e, dall'altro, la prevalenza su di esse delle norme emanate successivamente dal legislatore locale. Ma, sempre in questo schema, ben può giustificarsi che le norme sta­tali di dettaglio, destinate a "cedere" alla legge regionale, siano emanate in via regolamentare[174]. E' vero che in questo caso verrebbero meno quelle garanzie di "politicità" delle scelte at­tuative che sono implicite nell'adozione con legge delle norme di dettaglio[175]; ma è vero anche che la differenziazione delle fonti statali produce maggior chiarezza circa il materiale normativo che può "produrre" i princìpi fondamentali della materia[176], più chiara rimanendo anche la cedevolezza delle norme regolamentari (se non dell'intero atto statale) di fronte alla legge regionale di adeguamento ai nuovi princìpi[177].

     Non può sfuggire l'importanza dell'introduzione di questo mec­canismo per la stessa configurazione dell'autonomia regionale. Esso è sì ispirato alla limitata esigenza di assicurare, tramite l'introduzione di una sorta di sostituzione preventiva[178], l'efficacia della legislazione statale anche nel caso di inerzia del legislatore locale. Ma è chiaro che esso toglie fondamento alla pretesa "obbligatorietà" dell'esercizio della funzione legi­slativa regionale[179]: anzi, proprio attraverso questa tecnica le­gislativa, può introdursi nell'ordinamento italiano un principio di volontarietà nell'assunzione delle attribuzioni legislative da parte delle regioni, che in qualche modo può ricordare il princi­pio dispositivo che ispira l'assetto costituzionale spagnolo delle autonomie[180]. Le regioni "possono" emanare proprie norme di attua­zione dei nuovi princìpi, ma la legge statale può operare anche senza di esse.

     Nelle potenzialità di questo meccanismo c'è, dunque, anche la differenziazione progressiva delle attribuzioni legislative regio­nali (non di quelle astrattamente assegnate, ma di quelle concre­tamente esercitate). Ecco che allora anche il principio di asso­luta eguaglianza delle funzioni regionali[181] può subire - sul piano operativo, quantomeno - una forte attenuazione, e con esso uno dei tratti forti di marcatura dell'assetto originario. Sembra ammetterlo la stessa Corte cost. quando differenzia le regioni, sulla base del fatto che abbiano o meno legiferato, in relazione alle proprie decisioni sulla compe­tenza: sicché l'atto statale risulta "invasivo" solo nei confronti delle regioni "attive", e solo per esse viene perciò annullato[182].

     Sono questi, forse, segnali che lasciano intravvedere verso quale direzione si muove il sistema delle autonomie regionali. Il loro assetto "post-euclideo" emerge dalla prassi legislativa e dalla giurisprudenza cost. con tutte le difficoltà percettive del disegno puntiforme. Spesso la critica si limita a registrare la distanza del singolo punto dai margini del disegno di partenza, ma ciò non significa che i singoli fenomeni non siano ascrivibili a linee di tendenza di grande significato. L'esempio della legisla­zione statale di dettaglio è solo un episodio. Ma un esempio an­cora più vistoso è dato dallo sviluppo[183] dell'interesse nazionale che, come è stato di recente notato[184], va orientandosi verso uno schema di funzionamento assai simile al principio di sussidia­rietà, com'è conosciuto nelle relazioni federali tedesche e si sta sviluppando nei rapporti tra Comunità europea e Stati membri. Se lette "in positivo", queste apparenti deformazioni del quadro ori­ginario delle potestà regionali possono risultare invece bozze di un disegno nuovo, più adeguato alle esigenze attuali dei sistemi di relazione centro-periferia.

 

 

 


 

 



[1] Per questa impostazione cfr. ad es. MARTINES, Studio cit., 152 s. Che questo modello sia oggi in crisi è affer­mazione comune: cfr., per es., D'ATENA, La crisi della legge regionale, in Q.reg. 1990, 491 ss.

 

[2] Per una critica al "paleo-regionalismo", che immaginava che "Stato e regione siano destinati a procedere come due rette paral­lele e quindi a non incontrarsi mai, dando vita ad ordinamenti se­parati e ponendo in essere un'attività amministrativa e legisla­tiva collocata in ambiti ben definiti ed esclusivi", e si basava sulla fonda­mentale idea per cui "quello che non è dello Stato spetta alle regioni, e viceversa", cfr. già BARTOLE, Intervento, in Regioni: politica o amministrazione?, Milano 1973, 285.

 

[3] Un' applicazione tipica e di grande portata del limite costitu­zionale riguarda il principio di eguaglianza, in­teso come divieto di discriminazione "ratione loci" (cfr., in questo senso, Corte cost. 336/1989), e quindi come prin­cipio strutturalmente conflittuale con l'autonomia legislativa (e strettamente connesso, del resto, con il li­mite previsto dall'art. 120 Cost.: v. poi, nota 14), es­sendo evidente che se venisse inteso in senso ampio e gene­rico "sarebbe impeditivo di qualsiasi iniziativa in ambito locale" (Corte Cost. 1066/1988), sicché resta alla Corte Cost. il compito di "bilanciare" le due opposte esigenze (cfr. Corte Cost. 20/1985, in ma­teria di elettorato passivo): sull'argomento, cfr. BARTOLE, In tema di rapporti ecc., in GiC 1967, 671 ss.; CERRI, L'eguaglianza nella giuri­sprudenza della Corte Cost., Milano 1976, 67-72; SORREN­TINO, Considerazioni su riserva di legge, principio di egua­glianza ecc., in La Corte cost. tra norma giuridica e realtà so­ciale, Bologna 1978, 471 ss.; ANZON, Leggi re­gionali e princi­pio di eguaglianza, in GiC 1978, 58 ss. (con indicazioni di giuri­sprudenza); PINELLI, Diritto di elettorato passivo ecc., in GiC 1990, 3109.

 E' questo, del resto, il fondamento principale dell' esclusione, in via generale, della competenza legislativa regionale in "materie" cruciali, attinenti ai rapporti civili, al diritto pe­nale, al sistema tributaria, come si vedrà più avanti (v. infra, §. 3).

     Il profilo processuale del "limite costituzionale" si rivela nell'interpretazione estensiva data dalla Corte cost. dell'interesse a ricorrere dello Stato, che si confonde con la sua legittimazione processuale, poiché è "legittimato ad impugnare tutte le leggi delle regioni, ... presumendosi avervi sempre in­teresse" (CRISAFULLI, Lezioni cit., 309).

 

[4] Al limite degli obblighi internazionali sono dedicati i succes­sivi §§ 7 e 8.

 

[5] Sul limite territoriale cfr. MAZZIOTTI, Studi cit., 171 ss.; AMATO, Il sindacato cit., 167 ss., 434 ss.; BARTOLE, Art. 117 cit., in  Le Regioni, le Province, i Comuni cit., 123 s.; MAZZIOTTI DI CELSO - SALERNO, Competenze legislative  delle  Regioni ordinarie e limite territoriale, in GiC 1988, I, 4, 3976 ss., 3980-3982; PALADIN, Diritto regionale cit., 77 s. Quanto alla giurispru­denza, "storica"  è la sent. 28/1958 (in merito ad un conflitto di attribuzione insorto sul potere di riconoscimento di una persona giuridica privata, la cui spettanza è da stabilirsi in base alla sfera territoriale degli interessi perseguiti dal soggetto in que­stione). L'àmbito territoriale in cui può svolgersi l'attività delle regioni entra in considerazione anche nelle sent. 44/1967 (possibilità che la regione tuteli i propri prodotti tipici fuori dal proprio territorio at­traverso convenzioni, senza poteri di in­dole pubblicistica) 98/1972 (ufficio IGE), 96/1974 (personale re­gionale), 450/1988 (vigilanza sui complessi dilettantistici tea­trali), 525/1988 (su linee di trasporto che interessano il terri­torio di due re­gioni) 634/1988 e 144/1989 (localizzazione geogra­fica dei sinistri il cui rischio può essere assunto da imprese as­sicuratrici autorizzate e vigilate dalla Regione Sicilia), 829/1988 (in cui si afferma esplici­tamente che la rap­presentanza generale degli interessi regionali supera gli àmbiti delle materie di com­petenza ma anche l'àmbito territoriale dell'ente), 58/1958, 1141/1988, 1147/88, 183/1989, e 525/90 (tutte in tema di competenze delle regioni speciali in relazione agli istituti di credito loca­lizzati nel territorio regionale).

     La stessa casistica mostra come il limite territoriale tenda a confondersi con altri limiti alla potestà legislativa regionale, e soprattutto con il limite degli interessi nazionali o delle altre regioni (PALADIN, Diritto regionale cit., 78 e 110-112; in senso critico cfr. BARBERA, Regioni cit., 18 ss.), per il quale si rinvia al § 5, oppure con la definizione delle materie di competenza regionale (BARTOLE, Art. 117 cit. , 124, il quale di conseguenza annovera nella casistica della Corte cost. di applicazione di questo limite, dopo la sent. 28/1958, solo le decisioni relative alla pesca nelle acque interne e nel mare territoriale in Sardegna - sent. 23/1957 - e alle risorse del sottofondo marino in Sicilia - sent. 21/1968). In effetti si tratta di un limite "implicito", non essendo fissato né dalla Costituzione né negli Statuti (salvo l'art. 14 St. Sicilia: cfr. BARTOLE, Art. 117 cit., 123; MARTINES-RUGGERI, Lineamenti cit., 167 lo fanno risalire invece, in via generale, all'art. 120 Cost.: v. in­fra, nota 14), ma che riguarderebbe l'intera attività regionale, non solo quella legi­slativa (cfr. CUOCOLO, Diritto regionale cit., 112).

     Altro problema è la c.d. "collaborazione interregionale", cioè la possibilità che le regioni impieghino lo strumento convenzio­nale per regolare oggetti di comune interesse, quale ne sia la collocazione territoriale: cfr. D'ORAZIO, Gli accordi prelegisla­tivi tra le regioni, in GiC 1977, I, 956 ss. e gli scritti riuniti in  Re, 1980, fasc. 4; cfr. anche TOSI, "Principi fondamentali" cit., 222 ss.

 

[6] Come è noto, le materie in cui le regioni ordina­rie e speciali hanno competenza sono indicate in appositi elen­chi, riportati, rispettivamente, nell'art. 117 e negli Statuti speciali (i quali presentano, di regola, tre di­stinti elenchi, uno per ciascun livello di potestà regionale). La tecnica impiegata per la compilazione di questi elenchi è quella dell'indicazione succinta della materia attraverso locuzioni piuttosto semplici ("fiere e mer­cati", "musei e biblioteche di enti locali", "cave e torbiere", ecc.) e quasi mai autosufficienti al fine di deli­mitare la sfera di competenza.

     Due, quindi, i problemi fondamentali che l'applicazione di questo limite ha comportato. Il primo è se le locuzioni usate dal Costituente siano da intendersi come tecnicamente impegnative, tali perciò da legare una volta per tutte le competenze regionali ad una nozione tecnica della "materia" risalente all'epoca in cui Costituzione o Statuti sono stati scritti. Così vorrebbe la teoria della c.d. "pietrificazione" o "Versteinerung" delle materie, ori­ginariamente sviluppatasi in Austria (cfr. ERMACORA, Der Verfas­sungsgerichtshof,  Graz-Wien-Köln 1956, 148-150; SCHÄFFER, Verfas­sungsinterpretation in Österreich,  Wien-New York 1971, 97 ss.; BINDER, Metodi di interpretazione costituzionale ecc.,  in Re  1986, 866 ss., 877-880 ), ma riecheggiata anche nella nostra dot­trina ( cfr. MAZZIOTTI, Studi cit.,  132, ma  solo  per  un  accenno  in­diretto; D'ATENA La legge regionale cit., 994; ID., L'autonomia cit., 117 ss.; MANGIAMELI, Errore. L'origine riferimento non è stata trovata., in Enc.giur. XIX, Roma 1990,5 s.; ID., Le ma­terie di competenza regionale, Milano 1992, 103 ss., e ancora dello stesso A., più in generale, con riferi­mento alla nozione di 'proprietà', La proprietà privata nella Costituzione, Milano 1986, 72-97; DE LEONARDIS, Verso la tutela del paesaggio ecc., in RTDP 1988, 342 ss., 346), contro la quale si è però espressa la maggior parte della dottrina (cfr. PALADIN, Territorio regionale e piatta­forma continentale, in GiC 1968, 402 ss., 410; Idem, Problemi legislativi e interpretativi ecc., in FA, 1971, III, 3 ss., 35 s.;  IdemLa riforma regionale tra teoria e prassi, in DS 1979, 263 ss., 273; CERRI, La giurisprudenza cit., 10 ss.; ROLLA, La determinazione delle materie ecc., in Re 1982, 100 ss.; Idem, La commissione per le questioni regionali ecc.,  Milano 1979, 42 ss. Più in generale, CERRI, Profili costituzionali del sistema pensionistico, in DS 1983, 275 ss., 298 s.) e della giuri­sprudenza cost. (per uno esplicito rifiuto della tesi "che il significato dei termini cui si fa riferi­mento resti ancorato al momento dell'adozione della norma cost. di cui si tratta",  si può leggere nella sent.  211/1988, a proposito dell'assistenza sanitaria, op­pure, in termini analoghi, ma con riferimento al termine 'caccia', nella sent. 63/1990).

     Il secondo problema è connesso ai c.d. decreti di trasferi­mento, cioè a quei decreti legislativi delegati (i primi furono emanati nel 1972, in attuazione della delega contenuta nella "legge finanziaria", n. 281/1970; ad essi seguì il d.p.r. 616/1977, in attuazione della legge n. 382/1975) che sono stati utilizzati per il concreto pas­saggio delle funzioni e del relativo personale dalle amministrazioni statali a quelle regionali ordinarie (nelle regioni speciali, invece, i singoli Statuti prevedono appositi d.p.r. "di attuazione", predisposti da una Commissione paritetica Stato-Regione e deliberati dal Consiglio dei ministri). Nell'individuare le singole attri­buzioni trasferite o trattenute dallo Stato, questi decreti hanno svolto una fondamentale funzione di "concretizzazione" delle indicazioni costituzionali relative alle "materie" di competenza regionale; una funzione analoga (cfr. PALADIN, Problemi legislativi cit., 37; FALCON, Prescrizioni co­stituzionali ecc., in Re 1981, 1356 ss.; BARTOLE, Art. 117 cit., 208 ss.; TOSI, op.cit., 117 ss. e 147 ss.) viene svolta, nelle materie at­tribuite alla potestà concorrente delle regioni, dalle c.d. "leggi cornice" (v. poi, § 4), anche se questa possibilità è stata ne­gata, in linea di principio, dalla Corte cost. (sent. 70/1981). Ma se il significato delle locuzioni usate dalla Costituzione per in­dicare le attribuzioni regionali viene poi determinato da fonti di rango legislativo (di un vero e proprio rinvio costituzionale a ridefinizioni legislative parla TOSI, "Principi fondamentali" cit., 130 ss.), ciò significa che anche la tutela di quelle attribuzioni viene proporzionalmente "degradata", lasciando il legislatore ordinario in larga parte li­bero di variare le linee di ripartizione delle competenze (sul fatto che i decreti di trasferimento, e il d.p.r. 616 in particolare, come pure le leggi cornice, non siano un limite per il le­gislatore futuro, la giurisprudenza cost. e ferma: cfr. sent. 188/1984, 151/1986, 1034/1988, 101/1989, 85/1990). Per cui si può dire che leggi e decreti contribuiscano, ma non risolvano il pro­blema di riempire di con­tenuto i "nomi" inseriti negli elenchi co­stituzionali, problema la cui soluzione è rinviata, in ultima istanza, alle valu­tazioni della Corte cost. (cfr. CERRI, La giurisprudenza cit., 12-17), improntate dal "criterio teleologico" (l'elemento che consente di distinguere ciò che compete alle regioni e ciò che spetta allo Stato "non può essere altro che quello fornito dal contenuto e dallo scopo dell'atto (normativo), i quali qualificano l'atto stesso e ne determinano l'appartenenza all'ina o all'altra materia": sent.239/1982), sostanzialmente basate su un giudizio di ragionevolezza (cioè sulla "analisi delle funzioni razionalmente suscettibili di essere riunite nella materia": sent. 174/1981). Su questi profili cfr. CUOCOLO, Le leggi cornice. cit., 397 ss.; PALADIN, Problemi le­gislativi cit.,; FALCON, Prescrizioni costituzionali ecc., in Re 1981, 1357 ss.; ANZON, Il nuovo volto delle mate­rie regio­nali ecc., in Re 1983, 1103 ss., 1110 ss.; BARTOLE, Art. 117 cit., 209-212; GIZZI, Manuale cit., 297 ss.; TOSI, "Principi fondamentali" cit., 128 ss. e autori ivi richiamati.

 

[7] La sent. 1107/1988, ha fissato due criteri concorrenti che ci aiutano a comprendere in cosa consistano i prin­cìpi generali dell'ordinamento giuridico: essi consistono "in orientamenti o criteri direttivi di cosi ampia por­tata o cosi fondamentali da po­tersi desumere, di norma, soltanto dalla disciplina legislativa relativa a più set­tori materiali, ... ovvero, eccezionalmente, da singole materie, sempreché in quest'ultimo caso il principio sia diretto a garantire il rispetto di valori supremi, collocabili al livello delle norme di rango cost. o di quelle di imme­diata attuazione della Costituzione". Con applicazione (non sempre limpida) di questo test, sono stati ri­conosciuti come princìpi ge­nerali dell'ordinamento, per esempio: la libera concorrenza nelle attività la­vorative manuali (sent. 6/1956), l'obbligo di indenniz­zare il proprietario espropriato (sent. 49/1958), l'esclusiva com­petenza statale in materia processuale (ibidem) la definitività del controllo (sent. 73/1961), il giusto procedi­mento (sent. 13/1962, 30/1964, 7/1982), l'attualità e la concretezza dell'interesse pubblico nell'espropriazione (sent. 90/1966) il coordinamento della finanza pubblica in sede di programmazione (sent. 107/1987), il rendiconto giudiziale (sent. 114/1975 e 1007/1988), il "principio di contabilità pubblica" circa la sepa­razione della spesa corrente da quella per investimenti (sent. 245/1984); il principio organizzativo del sin­dacato maggiormente rap­presentativo (sent. 975/1988), la tutela delle minoranze lin­guistiche (sent. 289/1987 e 768/1988), la c.d. contin­genza (45/1978), l'irretroattività della legge regionale se si riflette sulla continuità dell'ordinamento giuri­dico (44/1957, 116/1957, 123/1957,  13/1980, 91/1982, 19/1989, 389/1991, ord. 713/1988), il silenzio-rifiuto (sent. 191/1986), il principio del neminem laedere (sent. 16/1992); mentre principio non è stato ri­conosciuto a proposito della responsabilità per colpa lieve dei dipendenti pubblici (sent. 1032/1988), dell'equiparazione fra chi­mici e medici dipendenti dai laboratori di igiene e profilassi (sent. 1107/1988), della riserva giurisdizionale per gli atti di sequestro (sent. 623/1988), dell' irretroattività della legge regio­nale (sent. 19/1970, ord. 713/1988), del "valore" della certezza del diritto (sent. 101/1986), della riserva al pro­prietario della cosa ac­cessoria del potere di far cessare il vincolo pertinenziale (sent. 50/1982), della perequa­zione retributiva dei dipendenti pubblici (sent. 21/1978), della titolarità del potere di denomi­nare le frazioni in capo allo stesso or­gano che denomina i comuni (sent. 28/1964), degli usi civici in generale (sent. 87/1963), della regola del con­corso pubblico nel settore farmaceutico (sent. 68/1961). Cfr. inoltre CERRI, La giurisprudenza cit., 22 s. Per il dibattito teorico sulla natura dei princìpi generali dell'ordinamento, cfr. D'ATENA, Errore. L'origine riferimento non è stata trovata. cit., 981-984;

 

[8] "(I)l limite delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali si caratterizza sotto un triplice profilo: a) si deve trattare di norme legislative dello Stato che - in corrispondenza del contenuto, della motivazione po­litico-sociale e degli scopi che si prefiggono - presentino un carattere riformatore, diretto ad incidere signifi­cativamente nel tessuto normativo dell'ordinamento giuridico o nella vita della nostra comunità giu­ridica nazio­nale (...); b) le stesse leggi, tenuto conto della ta­vola di valori costituzionali, devono avere ad oggetto set­tori o beni della vita economico-sociale di rilevante importanza, ...; c) si deve trattare, inoltre, di "norme fondamentali", vale a dire della posizione di norme-principio o della disciplina di istituti giuridici - nonché delle norme legate con queste da un rapporto di coessenzialità o di necessaria integrazione - che rispondano com­plessivamente ad un interesse unitario ed esigano, pertanto, un'attuazione su tutto il territorio nazionale (...) e che, in ogni caso, lascino alle regioni, nelle materie di propria compe­tenza, uno spazio normativo sufficiente ad adattare alle proprie peculiarità locali i princìpi e gli istituti introdotti dalle leggi nazionali di ri­forma": questo è il "test" enunciato dalla sent. 1033/1988.

     Benché nell'argomentarlo la Corte cost. faccia sempre riferimento specifico ai propri precedenti, la casi­stica non sem­bra testimoniare sempre di un'attenta applicazione di criteri si­mili a quelli enunciati. Sono stati riconosciuti come "grandi ri­forme" (non sempre però distinguendo ciò che è princìpio da ciò che è dettaglio: cfr.  PALADIN, Diritto regionale cit., 91 ss.): l'espropriazione con indennizzo della proprietà terriera (sent. 49/1961); le regole di formazione e di attuazione del piano generale degli acquedotti (sent. 4/1964); la naziona­lizzazione delle imprese energetiche (13/1964) e i relativi atti esecutivi (sent. 79/1966, 118/1966, 91/1967); la riorganizzazione degli enti di riforma fondiaria in Sardegna (sent. 37/1966); il piano quinquennale per l'edilizia scolastica ed universitaria (92/1968); la perequazione di tratta­mento per l'applicazione della "scala mobile" (sent. 45/1978); le norme sull' espropriazione e sull'utilizzazione dei suoli delle leggi 865/1971 e 10/1977 (sent. 13/1980; v. anche sent. 623/1988); la legge quadro per il pubblico impiego (sent. 219/1984 e 493/1991); la legge "Galasso" (sent. 151/1986 e 437/1991); la ri­forma sanitaria e il relativo principio del concorso nella spesa sanitaria (sent. 296/1986); l'istituzione (e la composizione) del collegio dei revisori dei conti nelle USL e, più in generale, il regime di controlli a cui esse sono sottoposte dalla legge 181/1982 (sent. 107/1987 e 385/1991); le disposizioni transitorie in attesa della riforma della "riforma sanitaria" (sent. 274/1988 e 1011/1988) e quelle di riforma delle USL (sent. 386/1991); il regime di assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile deri­vante dalla circolazione di veicoli e natanti (sent. 634/1988); gli interventi per l'innovazione tecnologica (e quelli collegati, qualificati dalla Corte come "normazione generale sulla programmazione economica": sent. 796/1988); i princìpi della vec­chia legge quadro sulla caccia (sent. 1002/1988 e 577/1990); il principio dell si­lenzio-assenso in materia urbanistica e le rela­tive eccezioni (sent. 1033/1988); la legge di ratifica del Trat­tato sulla protezione degli uccelli (sent. 124/1990). Tale quali­fica è stata invece negata, per esempio, alla legge che determina il canone di affitto dei fondi rustici (sent. 160/1969, ma in quel caso la Corte era adita in via inci­dentale) o alla legge di con­versione di un decreto legge sulla finanza locale (sent. 100/1980).

     Va però osservato che la qualificazione di "grande riforma" non può avere una valenza generale: come ha giustamente chiarito la sent. 99/1987 (in cui si verteva sulle norme concernenti lo stato giuridico del personale, contenute nella legge 865/1971), anche se una legge viene così qualificata (magari dalla stessa Corte), ciò "non esime da una valutazione ad hoc delle norme impu­gnate" (questo vale, a maggior ragione, per i casi in cui la legge si autoqualifichi come "grande riforma": cfr. infatti sent. 219/1984, 151/1986, 1002/1988, 85/1990).

     In dottrina, cfr. BARTOLE, Art. 117 cit., 111 ss. e 189 ss.; CARAVITA, La giurisprudenza della Corte ecc., in FI 1986, 2689 ss.; MARTINES-RUGGERI, Lineamenti cit., 182-187; GABRIELE, Il limite delle norme fondamen­tali ecc., in Q.reg. 1988, 3 ss. (con analisi particolareggiata della giurisprudenza cost.); PALADIN, Diritto regionale cit., 91 ss.

 

[9] Come è noto il limite "dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato" (art. 117 Cost.; formule so­stanzialmente analo­ghe si trovano negli Statuti speciali) è stato sin dall'inizio ri­collegato alle c.d. "leggi cornice":  a questo argomento è dedi­cato il § 4.

 

[10] La potestà normativa di integrazione e attuazione della legisla­zione statale è espressamente prevista dagli Statuti delle regioni differenziate, e trova quindi estensione e formulazione diverse (cfr. FASO, Le minori pote­stà legislative delle regioni, Milano 1976, 117-125). Lo Statuto siciliano non prevede esplicitamente questo li­vello di potestà, ma, d'altra parte, definendo le caratteristiche della legislazione concorrente della regione im­piega espressioni assai simili a quelle che generalmente servono a indi­care la potestà integrativa ("... può, al fine di soddisfare alle condizioni particolari ed agli interessi propri della Regione, emanare leggi ...: art. 17: PALADIN, Diritto regionale cit., 68, parla di "un ibrido fra la potestà concorrente e quella integrativa od attua­tiva"). Per contro, la Valle d'Aosta, che è priva di potestà concorrente, si ritrova con una potestà integrativa eccezionalmente estesa, an­che in ragione delle sue particolarità linguistiche (che giustifi­cano, per esempio, com­petenze regionali in materia di istruzione nella scuola media: art. 3, lett. g).

 

[11] Diversamente dalla potestà integrativa-attuativa delle regioni speciali, prevista dai loro statuti come istitu­zionalmente rife­rita alle materie indicate nell'apposito elenco, e che quindi può essere esercitata anche praeter legem  (MORTATI, Istituzioni cit., 961; BARTOLE, Art. 117 cit., 122; MARTINES-RUGGERI, Lineamenti cit., 212; MORBIDELLI, Il regola­mento del commercio, in GiC 1989, I, 779 s.), la potestà attuativa spetta alle regioni ordinarie, in base all'art. 117, 2 Cost., solo dove vi sia un'apposita legge statale che lo preveda e senza alcuna ga­ranzia che la competenza non sia ritirata da successiva legge dello Stato.

 

[12] Infatti, si è discusso a lungo nella dottrina meno recente sulla natura legislativa o regolamentare della fa­coltà di emanare norme di integrazione od attuazione: cfr. FASO, op.cit, 86-101. Sull'argomento, per un'impostazione più moderna della questione (in applicazione del criterio della "competenza" nella ricostru­zione dei rapporti tra le fonti), cfr. PALADIN, Diritto regionale cit., 76. Rilevante è, sotto questo profilo, che la Corte cost. abbia negato che le direttive emanate dal Governo possano costituire un parametro di valutazione della legittimità della legge regionale di attuazione: ord. 809/1988 (che tra l'altro smentisce la vecchia tesi di chi riteneva che le norme regionali di attuazione doves­sero essere emanate in forma di regolamento amministrativo). Ma va tuttavia notato che il problema non è sempre di così semplice so­luzione: perché, da un lato, l'art. 7 del d.p.r. 616 stabilisce una relazione stabile tra la delega di funzioni amministrative ex art. 118, 2 c., Cost. e la facoltà di emanare leggi di attuazione ex art. 117, 2 c.; ma, dall'altro, l'art. 4, u.c. del 616 auto­rizza il Governo ad impartire direttive alle regioni per le "materie delegate". Cfr. BARTOLE, Art. 117 cit., 194 s.; BIN, Due passi ecc., in Re 1990, 1525 s.

     Altro problema è se lo Stato possa emanare regolamenti attua­tivi laddove vi sia una competenza "terziaria" della regione (per previsione dello Statuto o per delega legislativa): la Corte ha avuto modo di affermare la le­gittimità del regolamento statale di esecuzione, che però ha valore solo suppletivo, essendo destinato a cedere alla legislazione integrativo-attuativa della regione (sent. 165/1989). Del resto, questa facoltà sembrava ricono­sciuta dalla stessa Corte cost. anche laddove la regione vantasse una po­testà legislativa concorrente (cfr. ad esempio sent. 195 e 226 del 1986). Oggi però essa sembra limitata dall'art. 17, lett. b), della legge 400/1988, che esclude l'emanazione di regolamenti di attuazione ed integrazione nelle "materie comunque riservate alla legge" (cfr., in questo senso, Corte Cost. 204/1991, 391/1991, 341/1992). Tuttavia regolamenti amministrativi conti­nuano ad essere ammessi dalla Corte, sia, in linea di principio, laddove non siano state ancora emanate leggi re­gionali (sent. 49/1991), sia dove la prevalenza dell'interesse nazionale comporti la sottrazione di determinati oggetti alla disciplina regionale, sia, infine, laddove essi siano giustificabili da esigenze di "coordinamento tecnico": cfr. TRIMARCHI BANFI, Osservazioni sull'uso dei regolamenti ecc., in Re 1992, 584 ss.; FALCON, Questioni quasi nuove ecc.. in Re 1992, 1291 ss., ss.;  BIN, "Coordinamento tec­nico" ecc., in Re 1992 1449 ss. In argomento, v. ancora, infra, note 111 s. e § 9).

 

[13] Secondo alcuni autori, la legge regionale potrebbe apportare deroghe a quella statale, almeno quand'è espres­sione di potestà integrativa (ma a condizione che la legge statale lo preveda: cfr. MORTATI, Istituzioni cit., 962; FASO, Le norme regionali di attuazione ed integra­zione, Milano 1971, 63 ss.), e forse anche nel caso della legisla­zione d'attuazione (cfr. PALADIN, Diritto regionale cit., 75 s.; MORBIDELLI, cit., 780; D'ATENA, Autonomia legislativa cit., 26 s.). Contra, cfr. CHELI, Legislazione "integrativa" ecc., in Re 1979, 200 ss. Qualche aper­tura sembra invece esserci nella giuri­sprudenza cost.: la sent. 227/1990, per esempio, ricono­sce che la competenza "integrativa" delle regioni speciali, più ampia di quella ex art. 117, 2 c., "non ha carattere mera­mente in­tegrativo, bensì complementare ..., potendo esprimere contenuti innovativi rispetto alla legislazione sta­tale, purché diretti ad adattare le disposizioni poste da tale legislazione alle partico­lari esigenze regionali". Ma va comunque osservato che la capacità di "innovare" (già riconosciuta dalla sent. 95/1971) non equivale affatto alla capacità di "derogare" alle norme preesistenti. Sta di fatto che nel controllo sulle leggi regionali "integrative" la Corte ha sistematicamente bocciato tutte le norme derogatorie: cfr. sent. 296/1986 e 138/1989 (sulle presta­zioni sanitarie "aggiuntive" in Valle d'Aosta).

 

[14] Cui si aggiungono i limiti specifici previsti dall'art. 120 Cost. (divieto di ostacolare la libera circolazione delle merci, delle persone e delle professioni): limiti che hanno avuto una certa rilevanza in passato, soprat­tutto per impedire alle regioni (e, in particolare, a quelle ad autonomia differenziata) di "chiudere" la propria comunità (cfr. SCUDIERO, Note sull'art. 120, in RDP 1963, 535 ss.; BARBERA, Regioni cit., 12-18; PUBUSA, Art. 120, in Le Regioni, le Province, i Comuni, cit., 447; in giurisprudenza, cfr. Corte Cost. 6/1956: albo delle imprese arti­giane; 13/1961: professione di guida alpina; 86/1963: concorsi per sanitari "riservati" ai residenti; 158/1969: titolo pre­ferenziale per l'esercizio della professione presso il Laboratorio di restauro; 82/1970: di­sciplina delle professioni nel settore commercio), ma che ormai sembrano in larga parte assorbiti dai princìpi di liberalizzazione imposti dalla Comunità europea. Tut­tavia non mancano applicazioni re­centi del limite dell'art. 120: cfr. Corte Cost. 168/1987 (titoli di abilitazione per l'esercizio dell'artigianato) e, in un raro caso di con­flitto di attribuzioni tra regioni, Corte Cost. 51/1991 (divieto di monticazione).

 

[15] Le opinioni si sono divise soprattutto sulla spiegazione di cosa si debba intendere per 'interesse nazionale' (o delle altre regioni), il contrasto con il quale dovrebbe generare il conflitto "di merito" (secondo la più co­mune lettura dell' art. 127, u.c.: cfr., oltre agli Autori citati in seguito, VOLPE, Autonomia locale e garanti­smo, Milano 1972, 144 ss.; RUGGERI, L' "interesse di altre Regioni" ecc., in RDP 1972, 383 ss.). In estrema sin­tesi, da un lato c'è l'opinione di chi colloca gli "interessi nazionali" nella rarefatta atmosfera dei "valori permanenti della nazione italiana" (MARTINES-RUGGERI, Lineamenti cit., 171; in termini sostanzialmente equivalenti MARTINES, L'interesse nazionale, in Pro­blemi della regione e del governo locale, III, Milano 1965, 183 ss.; BARTHOLINI, Interesse nazionale e competenza delle regioni, Padova 1967 356 ss.; PIZZETTI, Il sistema costituzio­nale delle autonomie locali, Milano 1979, 381 s.), dei fini dell'ordinamento (PALADIN, La potestà cit., 18) o della sua costituzione mate­riale (BARBERA, Regioni e interesse nazionale, Milano 1973, 118 ss.; ROLLA, La Commissione per le questioni regionali, Milano 1979, 178; GIZZI, Manuale cit., 421); dall'altro c'è chi invece identifica interesse nazionale con opportunità politica (MORTATI, Istituzioni cit., 944; ID., I limiti della legge cit., 584 ss.; ID. L'interesse nazionale ecc., in St. Crosa II, Milano 1960, 1292 ss.; MAZZIOTTI cit., 203 s.; D'ATENA Autonomia legislativa cit., 132; ID., Errore. L'origine riferimento non è stata trovata. cit., 997), ricostruendo il conflitto di merito sostanzial­mente come un conflitto tra indirizzi politici.

     L'eccessiva semplificazione delle posizioni (per una panora­mica più estesa cfr. TARANTINI, Problemi e pro­spettive ecc., in GiC 1983, I,1609 ss.) è giustificata dal fatto che si tratta di temi che ormai appartengono alla storia del pensiero giuridico, poiché il "limite degli interessi" si è evoluto in tutt'altre forme (v. infra, § 5). Ma è importante notare come già dall'inizio fosse fortemente sentita nel dibattito teorico l'esigenza di anco­rare il "limite" a parametri stabili (per quanto sempre incertis­simi), per evitare di riconoscere che Governo e Parlamento possano fissare a loro piacimento i margini della potestà legislativa re­gionale, sconfessando così il carattere costituzionale, e perciò "rigido", di essi. E questa esigenza apriva la portata all'accettazione del fatto che, almeno in parte, la considerazione degli interessi nazionali penetrasse nei (e si confondesse con i) li­miti di legittimità. Se oggi uno spazio è residuato al controllo di merito, esso non può che essere limitato a quello di "un rime­dio del tutto straordinario, del quale non verrà fatto alcun uso se non in situazioni estreme" (PALADIN, Diritto regionale cit., 439).

     Sul fenomeno della c.d. "conversione" del limite di merito in limite di legittimità si ritornerà in se­guito: v. infra, § 5.

 

[16] Incerti sono sia il procedimento che le Camere dovrebbero se­guire per risolvere il conflitto, che la forma e l'efficacia dell'atto finale: cfr. NOCILLA, Ipotesi ricostruttive ecc., in GiC 1979, I, 73 ss.; PIZZORUSSO, Il controllo di merito delle leggi regionali, in Le regioni fra potere centrale e potere locale, I, Firenze 1982, 201 ss.; TARANTINI, op.loc.cit.

 

[17] Cfr, BARTOLE, Autonomia e collaborazione cit.; BARTOLE, Ri­pensando alla collaborazione ecc., in GiC 1982, I, 2420 ss.; PALA­DIN, La riforma regionale ecc., in  Attualità e attuazione della Costituzione, Bari 1979, 106 ss., 109.

 

[18] Cfr., per tutti, LAVAGNA, Istituzioni di diritto pubblico, To­rino 1976, 571. Fermo che l'autonomia regionale è un elemento di connotazione, talvolta lo si attribuisce alla forma di Stato, piuttosto che alla forma di governo: cfr., ad es., MARTINES, Di­ritto costituzionale, Milano 1992, 773.

 

[19] LAVAGNA, op.cit., 560.

 

[20] Cfr. MARTINES, Studio cit.; BASSANINI, L'attuazione delle regioni, Firenze 1970, spec. 25-34; TERESI, Il Governo regionale, Mi­lano 1974, 2 ss.

 

[21] Per un caso di applicazione esplicita di tale principio, cfr. sent. 243/1974: cui adde la sent. 276/1991 (che dichiara illegit­timi i privilegi riconosciuti a Venezia), per la quale cfr. CO­COZZA, L'uguaglianza fra Regioni ecc., in Re 1992, 775 ss. e CASSETTI, L'eguaglianza fra le regioni ecc., in Il dir. della reg. 1992, 722 ss. Nono­stante la specialità dello Statuto (e del procedimento di emana­zione dei relativi decreti di attuazione), il po­tere espansivo del principio di eguaglianza ha portato la Corte cost. ad estendere, in via interpretativa, anche alle regioni differenziate i maggiori poteri attribuiti dal d.p.r. 616 alle regioni ordinarie: cfr. ad es. sent. 223/1984, 216/1985, 304/1987, 449/1988, 511/1988, 1029/1988. All'opposto, la specialità dello Statuto differen­ziato impedisce l'estensione analogica delle sue norme: Corte cost. 24/1957.

     Sulla possibilità che tale principio si attenui in seguito alla prassi dell'emanazione di leggi-cornice fornite di norme di dettaglio, che rendono facoltativo l'esercizio delle attribuzioni legislative regionali, v. infra, § 9.

 

[22] Per le vicende politiche delle prime giunte regionali, cfr. BIN, Le crisi di giunta ecc., in Re 1976, 425 ss. Sull'immagine della regione e delle sue strutture di partito negli stessi quoti­diani di partito, cfr. PRIULLA, Immagine dei partiti ecc., in Autonomia politica e sistema dei partiti, Milano, 1988, 73 ss.; ID., L'identità re­gionale dei partiti, in Reg.gov.loc. 1991, 335 ss.

 

[23] Per un esempio di queste dinamiche, relativo ai lavori prepara­tori della legge quadro sull'artigianato, cfr. BIN, La legge qua­dro ecc., in Re 1986, 90 ss

 

[24] in argomento cfr. PASQUINO, Organizzazione dei partiti, in ISAP, La regionalizzazione, Milano 1983, 785 ss.; STEFANINI, Sistema delle autonomie ecc., in Dem.dir. 1983, 133 ss.; MORISI, Le assemblee elettive ecc., in Regioni e rappresentanza politica, Milano 1987, spec. 40 ss.; PASQUINO, Crisi del "sistema Italia" e prospettive del regio­nalismo (Intervento), in Re 1993, 19 ss., nonché i contributi di Cazzola e altri raccolti in  Autonomia politica cit.

 

[25] Cfr. Corte cost. 7/1956.

 

[26] Corte cost. 72/1956.

 

[27] V. supra, nota 3.

 

[28] 6/1956 (in GiC 1956, 586 ss., con nota di VASSALLI favorevole all'introduzione di espliciti riconoscimenti del potere regionale di emanare sanzioni penali), 21/1957 (in materia di protezione dell'ambiente: ove si stabilisce che la legge regionale non può introdurre sanzioni pecuniarie convertibili); 23/1957 (in materia di pesca), 39/1957 (dove si esclude che la regione possa disporre circa la destinazione dei proventi delle ammende, non po­tendo "emanare norme relative all'esercizio del magistero punitivo"), 51/1957 (assunzioni obbligatorie), 58/1959 e 23/1961 (autorizzazione di attività illecite: gioco d'azzardo), 90/1962 (conferimenti obbligatori: dove si sugge­risce che sia lo Stato a "fornire alla legislazione regionale una o più norme penali"); 68/1963 (polizia minera­ria), 26/1966 (obiter dictum sul divieto per lo Stato di abdicare, neppure per aspetti marginali, al mono­polio della legislazione penale), 79/1977 (abrogazione regionale di norme penali in materia di caccia), 179/1986 (condono edili­zio), 1029/1988 (incidenza su sanzioni penali in materia di caccia e pesca delle norme regionali che concernono un parco nazionale), 370/1989 43/1990 309/1990 213/1991 504/1991 306/1992 307/1992 e 437/1992 (tutte relative allo stoccaggio temporaneo di rifiuti), 487/1989 (modifica delle condizioni del condono edilizio), 14/1991 (autorizzazione per gli impianti di smaltimento dei rifiuti solidi urbani), 18/1991 (spontanea demolizione di opere abusive), 117/1991 (smaltimento di rottami: regime transitorio).

     In dottrina, cfr. VINCIGUERRA, Le leggi penali regionali, Mi­lano 1974; PALADIN, Il problema delle sanzioni ecc., in  St. Guic­ciardi, Padova 1975, 387 ss.; FUSCHI, Aspetti problematici ecc., in RIDPP 1979, 1132 ss.; MOCCIA, Disciplina regionale degli scarichi ecc., in Re 1989, 962 ss.

 

[29] Cfr., per es., Corte cost. 104/57 (richiamo delle norme penali pre­viste dalla legge elettorale per la Camera), 210/1972 (protezione della fauna: richiamo di norma penale "in bianco" - art. 734 c.p.), 239/1982 (richiamo a san­zioni penali in materia di tutela del paesaggio).

 

[30] "(A)lle leggi regionali non è precluso concorrere a precisare, secundum legem, presupposti d'applicazione di norme penali sta­tali, né concorrere ad attuare le stesse norme e cioè non è pre­cluso realizzare funzioni analoghe a quelle che sono in grado di svolgere fonti secondarie statali": Corte cost. 487/1989.

 

[31] Cfr. PALADIN, Diritto regionale cit., 73

 

[32] Per questa "dottrina", cfr. Corte cost. 189/1987, 364/1988, 409/1989, 487/1989, 282/1990, 133/1992, 291/1992.

 

[33] Cfr. ancora Corte cost. 487/1989.

 

[34] Cfr. Corte cost. 7/1956 ("le leggi regionali non possono discipli­nare rapporti nascenti dall'attività privata ri­volta alla terra, ... rapporti che devono essere regolati dal c.c. Possono, invece, occuparsi dei problemi atti­nenti alla organizzazione anche tecnica e allo sviluppo agricolo e forestale ... alla cui soluzione è in­teressata la collettività": tuttavia si convalida la norma regio­nale che riduce i canoni agrari, per fronteggiare una situa­zione specifica di particolare gravità, in considerazione della eccezio­nalità e temporaneità del provvedimento), 35, 36, 109 del 1957 (conformi alla precedente), 123/1957 (illegittime le modifiche al regime dell'enfiteusi), 6/1958 (in linea di principio spetta alla legge statale derogare al principio fondamentale dell'autonomia nego­ziale: ma sono ammesse deroghe per l'eccezionalità della si­tuazione locale, se temporanea, se lo scopo è il soddi­sfacimento di interessi pubblici, se non v'è contrasto con i princìpi della legislazione statale, ma loro adatta­mento alla particolare situa­zione ambientale), 34 e 53 del 1962, 60/1968 e 160/1969 (conformi alla precedente), 66/1961 (illegittime le norme regionali che mo­dificano il regime delle azioni per le società che operano in ma­terie di competenza regionale), 72/1965 (legittima l'estensione del privilegio sui crediti alle operazioni finan­ziarie operate da istituti regionali a sostegno dell'industria). In dottrina, cfr. MORTATI, Sulla potestà delle regioni di emanare norme di diritto privato, in GiC 1956, 981 ss.; PALADIN, Diritto privato e leggi regionali, in GiC  1957, 1119 ss., con Postilla di ESPOSITO; SICA, Legislazione regionale ecc., in GI 1957, I, 1, 655 ss.; MORTATI, Disciplina dei rapporti ecc., in GiC 1958, 40 ss.; PALADIN, La potestà cit., 97 ss.; MAZZIOTTI, Studi cit., 154 ss.; BARTOLE, Recessività o separa­zione ecc., in GiC 1968, 929 ss.; CLARIZIA, Pubblico e privato nell'ordinamento regionale, Napoli 1983.

     Un filone del tutto particolare è rappresentato dalla legisla­zione provinciale in materia di "masi chiusi", in cui la previ­sione dello Statuto del trentino-Alto Adige di specifiche compe­tenze normative in materia consente una disciplina locale di rap­porti tipicamente privatistici (cfr. Corte cost. 4/1956, 5 e 40 del 1957, 6 e 49 del 1958, 55/1964, 34 e 53 del 1962, 72/65, 188/1987, 505/88), non priva di riflessi anche sul piano giurisdizio­nale (v. in particolare Corte cost. 4/1956 e 55/64).

 

[35] La sent. ha ad oggetto una legge che, istituendo un parco natu­rale, limita gli usi civici preesistenti. Di ri­lievo sono anche le sent. 108/1975 (la regione non può incidere sull'organizzazione di enti privati che operano in materie di sua competenza), 38/1977 (la materia dello stato e della capacità delle persone giuridiche private ap­partiene al diritto privato), 691/1988 (illegittima la norma locale che disciplina la durata dell'apprendistato), 506/1991 (illegittima le legge regionale che limita la responsabi­lità per inadempimento delle USL), 35/1992 (illegittime le norme derogatorie della disciplina codicistica circa la nomina e la du­rata in carica degli ammini­stratori delle S.p.A. a partecipazione regionale).

     Sui rapporti tra legge regionale e riserva di legge, v. infra, nota 89.

 

[36] A dire il vero, la prima sentenza in materia (Corte cost. 4/1956) giungeva ad affermare che tutte le riserve di legge scritte in Cost. si riferiscono alle sole leggi dello Stato: ma poi si sof­fermava a ricostruire il signifi­cato particolare della riserva di cui all'art. 108.

 

[37] Corte cost. 81/1976. In questo senso si vedano, ad es., le sent. 12/1957 (nomina dei componenti delle commis­sioni tributarie: con­flitto di attribuzione risolto a favore dello Stato), 49/1958 (modifiche alle competenze del tribu­nale delle acque), 103/1975 (illegittima la norma che modifica le condizioni di esercizio dell'azione popo­lare), 114/1975 (illegittima la norma che, indi­rettamente, subordina l'esercizio della giurisdizione contabile alla deci­sione di un organo amministrativo regionale), 615/1987 (illegittima l'individuazione del giudice compe­tente a co­noscere delle opposizioni alle ordinanze-ingiunzione per sanzioni relative alla raccolta dei funghi), 727/1988 (illegittima la norma che at­tribuisce al pretore il giudizio di opposizione al provvedimento di decadenza dell'assegnazione degli alloggi: su argomenti simili, cfr. anche sent. 594/1990, 489 e 505 del 1991, 219/1993), 767/1988 (illegittima la norma che individua il giudice competente per il giudizio di opposizione alla stima e mo­difica le norme sulla noti­ficazione), 35/1958 (illegittimo l'arbitrato obbligatorio per le controversie in materia di appalti). Mentre è stata considerata legittima la previsione di un tentativo di conciliazione prelimi­nare nelle controversie di lavoro relative all'agricoltura, perché considerato solo facoltativo: Corte cost. 63/1961. In dot­trina cfr. AMBROSI, Leggi regionali riproduttive ecc., in Re 1987, 1596 ss.

     Per i profili giurisdizionali del particolare regime dei masi chiusi, v. supra, nota 34.

 

[38] Il problema si è posto soprattutto per le leggi regionali che affidavano agli organi giudiziari l'accertamento dell' ammissibi­lità delle proposte di referendum: cfr. Corte cost. 43/1982. Sono fatte salve però, sembrerebbe, le norme meramente riproduttive di quelle statali (che però si salvano dalla censura di illegittimità, mossa in via incidentale, per l'irrilevanza della questione, trattandosi di norme prive di contenuto normativo): Corte cost. 189/1984 e, in termini diversi, ord. 893/1988; mentre contro anche la semplice riproduzione di norme statali, per indebita novazione della fonte, cfr. 128/1963 e 203/1987.

     Non fa certo eccezione alla netta preclusione stabilita dalla giurisprudenza cost. la sent. 26/1991, in cui si accetta che la legge locale attribuisca all'operatore sanitario un "potere di se­gnalazione" all' AG (e non già un diritto d'azione) dei casi in cui i genitori si oppongano ad attività diagnostiche o terapeuti­che.

 

[39] Per tutti, cfr. COCOZZA, Autonomia finanziaria regionale e coordinamento, Napoli 1979; BERTOLISSI, L'autonomia finanziaria regionale, Milano 1983; BARDUSCO, L'autonomia finanziaria regionale, in Q.reg. 1984, 519 ss.; ALLEGRETTI-PUBUSA, Art. 119, in  Le Regioni, le Province, i Comuni, cit., 337 ss.; BERTOLISSI, L'autonomia finan­ziaria ecc., in Q.reg. 1987, 447 ss.

 

[40] Cfr. BERTOLISSI, L'autonomia cit., 8 ss.

 

[41] Si vedano: art. 36 St. Sic.; art. 8 St.Sard.; art. 12 St. V.A.; art. 73 St. T.-A.A.; art. 51 St. F.-V.G.

 

[42] Cfr. però, per una radicale esclusione della potestà tributaria delle regioni, CASSESE, Il finanziamento ecc., in RTDP 1963, 323 ss.; LOMBARDI, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, Milano 1967, 402.

 

[43] In questo senso PALADIN, Diritto regionale cit., 247. In giurisprudenza, cfr. Corte cost. 271/1986, che inter­preta la locuzione "forme e limiti" (stabiliti dalle leggi dello Stato), impiegata dall'art. 119. 1 c., nel senso che 'forma' "attiene al tipo del tributo, nella sua configurazione e nei suoi elementi costitutivi", e 'limite' "ha riguardo al momento quantitativo" del tributo: sicché si conferma che la legge regionale non può intervenire se prima lo Stato non ha disciplinato con legge la fattispecie ("precedenza" della legge statale), e che si confi­gura come esercizio di potestà attuativa "analoga nel contenuto e nel funzionamento" a quella prevista dall'art. 117, u.c., Cost., dalla quale si distingue solo per il fatto di essere costituzionalmente garantita. Cfr. anche la succes­siva sent. 272/1986 (cui adde sent. 204 e 214 del 1987).

 

[44] Cfr. PALADIN, Diritto regionale cit., 248. In giurisprudenza, cfr. già Corte cost. 9 e 19/1957, pur pronunciate nei confronti della Regione Sicilia, in cui si afferma l'esigenza che "l'obbligazione tributaria si ricol­leghi ad un sistema unitario, in ordine alle caratteristiche di ciascun tributo, ai cespiti colpiti ed alle modalità della riscos­sione", esigenza che si giustifica in nome del principio di egua­glianza (e delle esigenze dell'economia).

 

[45] Infatti alla legge regionale è precluso anche disporre esen­zioni tributarie, poiché anch'esse incidono su uno degli elementi (l'area impositiva) del regime tributario fissato dalla legge sta­tale: Corte cost. 294/1990.

 

[46] Proprio perché "attua un trasferimento di reddito a fini so­ciali, in una forma sconosciuta all'ordinamento dello Stato", è stata dichiarata illegittima la legge siciliana che introduceva un'imposta addizionale sulla pro­duzione di energia al fine di co­prire la spesa necessaria all'integrazione dell'assistenza a fa­vore dei lavoratori agricoli: cfr. Corte cost. 34/1961 (sui poteri della Regione Sicilia di introdurre imposte addizionali, ma solo se "corrispondono ad un tipo previsto dall'ordinamento statale e ai princìpi a cui questo s'ispira", cfr. la succes­siva e ben nota sent. 64/1965, nonché, più di recente, sent. 155/1986).

 

[47] Ovviamente si deve trattare di interessi di dimensione regio­nale (o, tutt'al più, interregionale: v. l'art. 8, d.p.r. 616/1977), dimensione che resta compressa, da un versante, da tutto ciò che è espressione dell' "interesse nazionale" (su cui si dirà diffusamente in seguito), e, dall'altro, dalla riserva a agli enti minori delle fun­zioni di esclusivo interesse locale (art. 118, 1 c., Cost.; art. 2, d.p.r. 616/1977; art. 2, u.c., l. 142/1990). Benché quest'ultime siano esclusivamente funzioni ammi­nistrative, è evidente la limitazione che subisce la potestà legi­slativa regionale, che, quanto meno, non può incidere sull'organizzazione amministrativa di queste funzioni. Questo con­dizionamento è particolarmente avvertito in una materia strategica com l' urbanistica: si vedano, a questo proposito, tra le deci­sioni più recenti della Corte Cost.., le sent. 499/1988, 157/1990, 73/1991.

 

[48] In dottrina, cfr. BARTOLE, Brevi note ecc., in GiC 1965, 267 ss.; PREDIERI, Le società finanziarie regionali, Milano 1972, 90; PIZZETTI, Leggi di spesa ecc., in GiC 1973, 366 ss., 375-382; MOR, Profili dell'amministrazione regionale, Milano 1974, 85 ss.; ROMANO, La lotta agli inquinamenti ecc., in FA 1975, II, 393 ss.; ROVERSI MONACO, Le regioni nel governo dell'economia, in Re 1980, 11 ss.; SORACE, Le competenze regionali in materia di agevola­zioni creditizie, in Re 1983, 402 ss.; BARTOLE, Art. 117 cit., 196-198; CARLI, Sviluppo economico ecc., in Re 1986,110 ss.; MAZZIOTTI DI CELSO-SALERNO, Competenze legi­slative cit., 3976 ss.

 

[49] Corte cost. 829/1988, in cui si giustifica un contributo della Re­gione Toscana a favore del fondo di solidarietà istituito dalla regione Piemonte: oltre a non rilevare il limite delle materie, non rileva in questo caso neppure il limite territoriale, che può "subire relativizzazioni o anche deroghe", purché giustificate da­gli interessi ge­nerali della collettività. Cfr anche le sent. 562/1988 (legittimità di una sovvenzione straordinaria ad un co­mune della regione: gli "interventi di sostegno finanziario non investono una specifica competenza regionale, ma pos­sono risultare attivati ogni qualvolta entrino in gioco interessi della colletti­vità locale suscettibili d'incidere nella sfera degli interessi e delle attribuzioni regionali");  256/1989 (che riprende, in un obiter dictum, le affermazioni della sent. 829/1988, per contrap­porre gli interessi regionali a quelli unitari in materia di poli­tica estera); 51/1990 (dove si ammette che la regione acquisti una partecipazione azionaria in una società che svolge attività econo­mica di natura privatistica poiché connesse a materie di compe­tenza: è ammesso che l'ente persegua con strumenti non pubblici­stici fini generali della comunità di cui è "esponenziale"); 276/1991 (dove si riassume il senso della giurisprudenza prece­dente, ricordando che la regione, come ente esponenziale, può "provvedere anche al di là sia dell'ambito del proprio territorio che dell'ambito delle competenze ..., almeno per quel che concerne la legislazione di spesa"). Su quest'ultima sent., cfr. VANDELLI, La Regione ente esponenziale ecc., in Re 1992, 787 ss.

 

[50] E' un punto fermo della giurisprudenza: si veda, tra le deci­sioni più recenti, la sent. 36/1992 (legittimità di interventi ag­giuntivi, e non sostitutivi, dello Stato in materia di competenza locale, i quali trovano giustifica­zione nella particolare emer­genza sociale), 180/1991 (contributi per immobili destinati a co­munità terapeutiche), 37/1991 (interventi aggiuntivi per la prevenzione e la lotta contro l' AIDS), 180/1991 (conflitto di attribuzioni: contributi aggiuntivi dello Stato per le sedi di comunità terapeutiche), 345/1990 (programmi aggiuntivi per la rea­lizzazione di residenze assistenziali), 399/1989 (interventi aggiuntivi per le esigenze abita­tive degli sfrat­tati), 324/1989 (programma triennale per la ridu­zione ed il ricupero dei rifiuti), 459/1989 (interventi aggiuntivi per i par­cheggi), 517/1987 (interventi per gli impianti sportivi), 1145/1988 (finanziamenti per l'esecuzione di singoli regolamenti CEE), 921/1988 (contributi statali ad iniziative culturali). Ma già Corte cost. 2/1960 (nessuna pretesa può avanzare la provincia autonoma sulle case costruite dallo Stato a totale suo carico), 19/1960 (legittimità degli in­terventi integrativi dello Stato in materia di edilizia popolare: sostanzialmente conforme 71/1962). Adde  56/1964 (interventi della regione in materia di competenza della provincia autonoma).

 

[51]  CARLI, Sviluppo economico cit., 114.

 

[52] Cfr., per tutti, BARTOLE, , in Enc. dir. XXXV, Milano, 1986, 494 ss.

 

[53] La riforma regionale, come occasione di ristrutturazione dell'amministrazione pubblica e di riordino normativo, era uno de­gli elementi caratterizzanti un più vasto progetto di riforma de­gli strumenti normativi (e di rilancio delle funzioni Parlamen­tari), imperniato sulla delegificazione, sulla legislazione per "clausole generali", sulla legge di piano: cfr. BARILE, Sulla de­legificazione, in ISLE,  Indagine sulla funzionalità del Parla­mento, II, Milano 1969, 141 ss.; RODOTA', Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in Riv. dir. comm. 1967, I, 83 ss.; PREDIERI, Aspetti del processo legislativo in Italia, in Pro­cesso allo Stato, Firenze 1971, 19 ss.; BASSANINI, L'attuazione cit., 215 ss.; CASSESE, Organe, Verfahren und Instrumente der Planung in Italien, in KAISER (a cura di), Planung, I, Baden-Baden 1966, 240 ss.

 

[54] Sulla problematica delle leggi-cornice e del "limite dei prin­cìpi fondamentali", oltre alle opere citate in bi­bliografia e quelle indicate alla successiva nota 66, cfr. AMATO, Il sindacato cit., 419 ss.; CUOCOLO, Le leggi cor­nice ecc., Milano 1967; GASPARRI, Sui princìpi fondamentali ecc., St. ventesimo anniv. Ass.Cost, VI, Firenze, 1969, 309 ss.; TRIMARCHI BANFI, Princìpi fondamentali ecc., in GiC 1970, 925 ss.; SILVESTRI, Le leggi cornice, in RTDP 1970, 1001 ss.; ZAGRE­BELSKY, Appunti sul significato ecc., in Regioni: politica ecc. cit., 265 ss.; NANIA, Limite dei "princìpi" ecc., in GiC 1980, I, 1774 ss.; CUOCOLO, Riflessioni sulle leggi cor­nice, in Q.reg. 1982, 449 ss.; LOMBARDI, Legislazione regionale concorrente ecc., in GiC 1982, I, 26 ss.; BARTOLE, La Corte cost. e il limite dei principi ecc., in St. Amorth, II, Milano 1982, 57 ss.; SCUDIERO, Legislazione regionale ecc., in Re 1983, 7ss.; CARLI, Il limite dei princìpi fondamentali, Torino 1992; CUOCOLO, Il difficile rapporto ecc., in GiC 1985, I, 2667 ss.; TOSI, "Principi fondamen­tali" cit.; GIZZI, Manuale cit., 303 ss.

 

[55] Cfr. in questo senso, ad es., MODUGNO, Richiesta di "referendum" abrogativo di "leggi cornice", in Diritto e società 1980, 189 ss., 212, che ricostruisce le leggi cornice come leggi atipiche, "non essendo suscettibili di modificazione se non ad opera di una legge successiva della stessa natura, che espressa­mente provveda allo scopo ... in modo però sempre da mantenere in vigore, senza soluzione di continuità, una organica disciplina di princi­pio della materia". Sulla natura "materialmente costituzio­nale e di fonti intermedie" delle norme-principio cfr. MARTINES, Legislazione regionale ecc., in Q.reg. 1984, 409 s.

     Del resto, per quasi ogni legge di rilievo generale si è prospettato questo "rafforzamento": per la "legge di piano" (cfr. BARBERA, Leggi di piano e sistema delle fonti, Milano, 1968, 113 ss.), per il d.p.r. 616 (cfr. BARBERA-BASSANINI, Il decreto 616 ecc., in I nuovi po­teri ecc., Bologna, 1978, 31), per la nuova legge sulle auto­nomie locali (art. 1, u.c., l. 142/1990: si vedano i pareri raccolti dall'Indagine conoscitiva della Camera e le relative conclusioni, riportati da VANDELLI,  L'ordinamento delle autonomie locali, II ed., Rimini 1991, 43 s.).

 

[56] Cfr. CUOCOLO, Diritto regionale cit., 133 s.

 

[57] Cfr., ad es., ZAGREBELSKY, Appunti sul significato costituzio­nale cit., 265 (cfr. però  contra GASPARRI, Sui  princìpi  fondamentali cit., 309 ss.). Fa invece coincidere le leggi cornice con le leggi di trasferimento delle funzioni previste nella VIII disp. trans., CUOCOLO, Le leggi cornice, cit., 382 ss.

 

[58] Art. 9, I c., legge 10 febbraio 1953, n.62 - "Costituzione e finanziamento degli organi regionali".

 

[59] La formula fu ripresa poi dall'art. 17, u.c., legge 16 maggio 1970, n.281- "Provvedimenti finanziari per l'attuazione delle Re­gioni a statuto ordinario". Su queste vicende e, in particolare, sulla disposizione della legge finanziaria, cfr. ZAGREBELSKY, Appunti cit.

 

[60] Cfr., ad es., sent. 39/1971 (i princìpi sono espressi "naturalmente, ed anzi preferibilmente", in apposite di­sposizioni di legge), 7/1982 (in cui si dice "auspicabile, a fini di cer­tezza del diritto e di disciplina più omo­genea" l'emanazione della leggi contenete i princìpi fondamentali della materia) e 278/1991 (in cui si avverte la necessità della legge sulla tutela dei beni culturali, sia per la vetustà del quadro normativo attuale, sia per l'esigenza di definire "adeguati raccordi e condotte cooperative" tra livelli amministrativi, essendo la divisione delle attribuzioni interamente basata sul criterio degli interessi).

 

[61] Per un bilancio delle prime esperienze, cfr. i contributi rac­colti in Re 1981, fasc. 1.

 

[62] Il procedimento di controllo governativo sulle leggi regionali è disciplinato (per quanto riguarda le regioni ordinarie, perché per quelle ad autonomia differenziata vigono apposite disposizioni degli Statuti, che, soprat­tutto in Sicilia, introducono regimi fortemente derogatori: cfr. MARTINES-RUGGERI, Lineamenti cit., 348-351; MANGIAMELI, Promulgazione parziale ecc., in GiC 1979, I, 972; PAL­MERI, La promulgazione parziale ecc., in Re 1981, 965 ss.) dall'art. 127 Cost. e dagli artt. 11-13 della l. 10 febbraio 1953, n.62,  nonché, per quanto riguarda il ricorso alla Corte cost., dall'art. 2 della l.cost. 9 febbraio 1948, n.1 e dall'artt. 31-34 della l. 11 marzo 1953, n. 87 (cui adde il capo II delle "Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte cost." Le leggi (rectius, le "delibere legislative"), entro 5 giorni (ma il ter­mine è ordinatorio) dall'approvazione, devono es­sere comunicate, da parte del Presidente del Consiglio regionale, al Commissario del Governo, il quale deve vi­starle (e in questo caso la legge, entro 10 giorni, può essere promulgata dal Presidente della Giunta e quindi pubblicata sul Boll.uff. della Regione, nonché, ma a meri fini notiziali, sull'apposita "serie speciale" della G.U) o rin­viarle entro 30 giorni (la mancanza di visto equivale ad approva­zione). Il rinvio deve essere deciso dal Consiglio dei Ministri (cfr., per es., Corte cost. 8/1967; per "ragioni eccezionali" è am­messo che il rinvio sia di­sposto autonomamente dal Presidente del Consiglio, salva successiva ratifica dell'organo collegiale: Corte cost. 147/1992; in Sardegna e, inizialmente, in Trentino-Alto Adige, invece, le norme di attuazione degli Statuti preve­dono in­vece che il rinvio sia sempre disposto dal Presidente del Consi­glio: cfr. PALADIN, Diritto regionale cit., 424) è deve essere motivato: la motiva­zione, anzi, riveste particolare importanza in quanto i motivi dell'eventuale ricorso dello Stato alla Corte cost. (o al Parla­mento) devono coincidere, almeno nelle "linee es­senziali", con i motivi del rinvio (Corte cost. 79/1989 e 122/1990, ove si ricordano i precedenti, nonché 561/1989, ove si distingue tra motivo nuovo ed argomento nuovo). Se, a seguito del rinvio, il Consiglio regionale riapprova la legge a maggioranza assoluta, il Governo (cioè, anche in questo caso, il Consiglio dei Ministri) può, entro 15 giorni dalla comunicazione, ricorrere alla Corte cost. (o al Parlamento).

     In dottrina, cfr. GABRIELE, Questioni ecc., in FA 1977, I, 2180 ss.; GIZZI, Aspetti organizzativi e fun­zionali ecc., in Il controllo governativo ecc., Milano, 1982, 31 ss.; GIZZI, Aspetti problematici ecc., in Q.reg. 1986, 773 ss.; MARTINES-RUGGERI, Lineamenti cit., 326 ss.; CUOCOLO, Diritto regionale cit., 148 ss.; PALADIN, Diritto regionale cit., 421 ss.; GIZZI, Manuale cit., 659 ss.

 

[63] Cfr. FALCON, Contestazione e contrattazione ecc., in GiC 1980, I, 531 ss.; PINI, Su alcuni casi di controlli governativi atipici ecc., in RTDPC 1984, 873 ss.; SICONOLFI, Visti governativi atipici ecc., in Re 1985, 456 ss.; Il controllo governativo sulle leggi regionali ecc., Cagliari 1986 (le principali relazioni sono pub­blicate anche su Re 1986, fasc. 4); ONIDA, I giudizi sulle leggi ecc., in Re 1986, 986 ss. Per dati più specifici relativi ai con­trolli governativi, cfr. le indagini di BARTOLE (1971-72), VAN­DELLI-DI MORA (1973-75), VANDELLI (1975-76) e FALCON (1977), pub­blicate in Re, rispettivamente, 1973, 553 ss.; 1976, 123 ss. 956 ss.; 1977, 915 ss.; 1978, 817 ss. Cfr. inoltre CARLI, La razionalizzazione dei controlli ecc., in PD 1987, 523 ss.

 

[64] Con la sent. 158/1988 (poi seguita dalla sent. 973/1988, 79/1989, 80/1989, 561/1989, 122/1990, 154/1990), in­fatti, la Corte cost. ha stabilito due importanti princìpi: a) il divieto di rei­terare il rinvio di una legge riapprovata; b) si considerano "riapprovate" (e quindi non suscettibili di secondo rinvio) le leggi deliberate senza alcuna modifica (o con modifiche che non comportano un mutamento del significato normativo delle disposi­zioni) e quelle emendate limitatamente alle parti colpite dalle censure del Governo (e inoltre quelle modificate solo per l'aggiornamento delle disposizioni sulla copertura finanziaria o in parti "esterne al contenuto disposi­tivo" dell'atto). Si ag­giunga che la regione può opporsi al secondo rinvio della stessa legge solo sollevando con­flitto di attribuzione, perché se riap­prova nuovamente sana i vizi relativi al secondo rinvio.

     In dottrina, a proposito delle innovazioni introdotte dalla giurisprudenza cost., cfr. CARLASSARE, Il  controllo sulle leggi regionali ecc., in Il d. della r. 1988, 1, 105 ss.; MARZONA, Ille­gittimità del rinvio ecc., ivi, 827 ss.; TOSI, Nuove soluzioni e nuovi problemi ecc., in Re 1988, 690 ss.; GROTTANELLI DE' SANTI, Legge re­gionale non nuova ecc, in GiC 1988, I, 548 ss.; D'ATENA, Sulla reiterabilità ecc., ivi, 552 ss.; D'ATENA, Ancora sulla rei­terazione ecc., ivi , 4593 ss.; PEDETTA, Considerazioni ulteriori ecc., ivi 1990, 3349 ss.; BRANCA, La riapprovazione ecc., ivi, 943; PACE, Rinvio governativo ecc., ivi 1991, 2854; ROSSI, Leggi regionali ecc., in FI 1991, I, 408 ss.; FALCON, Legge regio­nale "nuova" ecc., in Re 1991, 113 ss.; BARTOLE, Inconvenienti e prospettive ecc., ivi 1991, 608 ss.; TRIZIO, In materia di con­trollo ecc., in  Il d. della reg.", 1991, 250 ss.

 

[65] Cfr. ONIDA, Sindacato di legittimità ecc., in Re 1990, 679 ss.

 

[66] Sulla giurisprudenza cost. in tema di "principi fondamentali" della legislazione dello Stato la letteratura è sterminata: si se­gnalano in particolare, PALADIN, Corte cost. ed autonomie locali ecc., in Re 1980, 1229 ss.; CARLI, I princìpi fondamentali ecc., ivi 1981, 7 ss.; Idem, Un punto fermo ecc., ivi, 1037 ss.; BAR­TOLE, La Corte cost. ed il limite ecc., St. Amorth, II, Milano, 1982, 57 ss.; CERRI, La giurisprudenza cit., 24 s.; BARTOLE, La Corte cost. e la ri­cerca ecc., in Re 1988, 563 ss.; BARTOLE, Art. 117 cit., 149 ss.

 

[67] v. infra, §§ 5-6.

 

[68] Sent. 991/1988; la Corte continua affermando che "quando una censura viene validamente prospettata in relazione a una pretesa violazione di una norma o di un principio riconducibile a un giudizio di valore contenuto in una di­sposizione di legge ... si deve comunque escludere che la relativa questione possa essere annoverata fra quelle di merito, cioè tra questioni per la cui risoluzione è invocato un parametro non codificato in alcuna disposizione di legge o della Cost.". Cfr. anche le sent. 1130/1988 e 261/1990.

 

[69] La ricognizione delle leggi cornice emanate sinora non è af­fatto semplice, perché non sempre l'atto si autoqua­lifica e, come poi si vedrà, l'autoqualificazione non è mai decisiva. Si possono indicare tuttavia, come esempi di legge-cornice, la legge 335/1976 ("Princìpi fondamentali e norme di coordinamento in materia di bi­lancio e di con­tabilità delle regioni"), la legge 457/1978 ("Norme per l'edilizia residenziale"), la legge 833/1978 ("Istituzione del servizio sanitario nazionale"), la legge 845/1978 ("Legge quadro in materia di formazione professionale"), la legge 151/1981 ("Legge-quadro" per i trasporti pubblici locali), la legge 93/1983 ("Legge quadro sul pubblico im­piego"), la legge 217/1983 ("Legge quadro per il turismo"), la legge 47/1985 (controllo dell'attività urbanistico - edilizia), la legge 443/1985 ("Legge quadro sull' artigianato"), la legge 65/1986 ("Legge-quadro sull' ordina­mento della polizia municipale"), la legge 730/1985 (agriturismo), la legge 183/1989 (per la difesa del suolo), la legge 107/1990 ("Disciplina per le attività trasfusionali ecc.", che la sent. 49/1991 definisce in parte legge - cornice e in parte disciplina delle competenze dello Stato), la legge 142/1990 ("Ordinamento delle autonomie lo­cali"), la legge 241/1990 (riforma del procedimento amministrativo), la legge 266/1991 ("Legge-quadro sul volonta­riato"), la legge 281/1991 ("Legge-quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo"), la legge 394/1991 ("Legge quadro sulle aree protette"), la legge 157/1992 (che sostituisce la precedente legge-quadro sulla caccia 968/1977), i d.lg. 406/1991 e 48/1992 (in materia di appalti). Per ulteriori indicazioni, relative anche ai contenuti di queste leggi, cfr. GIZZI, Manuale cit., 318 ss.

 

[70] Secondo la tesi di GASPARRI, op.cit.

 

[71] "Le principali leggi statali ... non fanno differenza tra mate­rie dello Stato e materie attribuite alle re­gioni. Indifferente­mente per le une e per le altre ..., prevedono forme di cogestione per lo più organizzative ... e talora procedimentali": CASSESE, La regionalizzazione economica ecc., in Re 1984, 9 ss., 13; nello stesso senso, cfr. SCUDIERO, Legislazione regionale cit., 19 ss.

 

[72] Per un'eccezione, si veda l'art. 22 della l. 394/1991 (aree protette). Tuttavia la Corte ha espressamente af­fermato (sent. 192/1987) che "la mancata indicazione espressa ... delle norme principio, non produce lesione delle competenze regionali, perché non rende indistintamente tali, e quindi vincolanti per le re­gioni, tutte le norme in esso contenute".

 

[73] "La presente legge stabilisce i princìpi fondamentali cui le regioni a statuto ordinario devono attenersi nell'esercizio delle potestà legislative e di programmazione", esordisce per es. la legge-quadro in materia di trasporto pubblici locali" (art. 1, l. 151/1981); mentre la nuova legge sulla caccia solo alla fine, dopo aver lungamente individuato singole funzioni amministrative che le regioni devono svolgere, dispone che "(l)e regioni adeguano la propria legislazione ai princìpi ed alle norme stabiliti dalla presente legge" (art. 36, 6 c., l. 157/1992). Espressioni analoghe si trovano anche nelle leggi sulla contabilità, sul pubblico im­piego, sulle auto­nomie locali, sul procedimento amministrativo (che qualifica i propri princìpi addirittura come "princìpi gene­rali dell'ordinamento"), sulla difesa del suolo ecc.

 

[74] Su questo meccanismo v. infra, § 9.

 

[75] Per la quale cfr. la ricostruzione di NANIA, op.cit.

 

[76] Per l'individuazione dei princìpi fondamentali della materia la Corte non sembra essere riuscita a mettere a punto criteri di giu­dizio sufficientemente chiari (per un'analisi completa della giurisprudenza cost. sull'argomento, cfr. CARLI, Il limite cit.). In qualche caso si è espressa con affermazioni di principio, ma esse hanno mostrato scarsa o nessuna "tenuta" nell'applicazione successiva. Per es. (sono esempi rac­colti da CARLI, Un punto fermo cit., 1043 ss.), la sent. 46/1968 (ma anche sent. 307/1983) negava che i princìpi possano "identificarsi con le finalità, connesse a situazioni contingenti, che hanno potuto dar luogo a una o ad alcune norme particolari, difformi dal sistema generalmente vigente", ma ciò non ha impedito di avvalorare come "principio fondamentale" o addirittura come principio di "grande riforma" norme transitorie di riorganizza­zione del servizio sanitario (cfr. sent. 1011/1988 e sent. 274/1988; adde sent. 1033/1988, in cui si ammette che "fondamentale" possa essere anche la norma tratta da deroghe tem­poranee);  la sent. 70/1981 afferma che i princìpi devono "riguardare in ogni caso il modo di esercizio della potestà legi­slativa regionale e non comportare l'inclusione o l'esclusione di singoli settori della materia dall'àmbito di essa", ma non sembra che questo meta-principio abbia avuto seguito nella giurispru­denza successiva (cfr. ad es. sent. 192/1987 e 211/1988); la sent. 249/1976 (e già la sent. 97/1974) nega che la regione sia "obbligata a ripeterne (della legge statale) pedissequamente le norme, alle quali essa può e deve in­trodurre quelle variazioni utili ad adattare le leggi nazionali alle condizioni particolari ed agli interessi pro­pri della regione medesima", ma è evidente che questa sembra la definizione della potestà integrativa-attuativa (la sent. è pronunciata su ricorso della Regione Sicilia: v. supra, nota 10), non già di quella concorrente. Anche in merito alla "generalità" del principio, cui accenna quest'ultima sent., le va­lutazioni della Corte non si possono dire molto lineari (cfr. CARLI, Il limite cit., 180 ss.). Forse una delle affermazioni più limpide è contenuta nella sent. 177/1988, dove si sono censurate (per poi salvarle in nome dell'interesse nazionale! Sicché le affer­mazioni della Corte hanno il valore di un semplice obiter dictum) disposizioni della legge sulla gestione provvi­soria delle farmacie rurali che, contenendo "una disciplina in sé compiuta e autoapplicativa, che, come tale, non lascia il minimo spazio" alla legge regionale, dei "princìpi" non presentavano né i "caratteri sostanziali" né "quelli strutturali che, secondo la co­stante giurisprudenza di questa Corte dovrebbero essere loro propri".

     Insomma, uno dei pochi punti fermi della dottrina della Corte sembra l'esclusione della possibilità che i "princìpi" vengano po­sti da fonti sub-legislative (cfr. sent. 100/1980 e 832/1988), anche se, per es., agli ac­cordi sindacali è riconosciuto almeno un "vincolo di­rettivo di massima" per le regioni (sent. 339/1990, 38/1989, 217/1987, 219/1984; cfr. CARLI, Il limite cit., 206 ss.).

     Un'elencazione dei "princìpi fondamentali della materia" ac­creditati dalla giurisprudenza cost. si può trovare nella Nota redazio­nale a Corte cost. 267/1988, in GiC  1988, I, 1109 s.

                                 

[77] "Deve infatti ritenersi che la qualità di norma di principio o di dettaglio deriva dall'oggettiva natura della norma stessa, e non già da una mera definizione formale, che non sarebbe vinco­lante, nel caso di contrasto tra Stato e regione, per questa Corte": sent. 192/1987 (ma vedi anche sent. 195/1986, dove la Corte si rifiuta di prendere "in autonoma considerazione", rin­viando ad un esame delle singole disposizioni, il rilievo che la legge-quadro per il turismo non avrebbe introdotto norme di prin­cipio, ma di dettaglio). In termini analoghi la Corte si è espressa a proposito dell' autoqualificazione delle "grandi ri­forme": cfr. sent. 219/1984, 151/1986, 1033/1988, 85/1990, 349/1991. In dottrina, cfr. PEDETTA, L' "inerzia" cit., 111; MANGIA, Sulle clausole di autoqualificazione ecc., in Il dir. della reg. 1990, 69 ss; CARLI, Il limite cit., 198 ss.

 

[78] Sulle clausole di salvaguardia delle competenze esclusive con­tenute nelle leggi, che la Corte ritiene condi­zione necessaria e sufficiente di legittimità delle stesse, cfr. CERRI, La giurisprudenza cit., 25.

 

[79] V. supra, nota 8. Ad esempio possono essere portate le leggi sulla difesa del suolo, già citate.

 

[80] V. supra, nota 7. Ad esempio può essere portata la già citata legge sul procedimento amministrativo.

 

[81] V. supra, nota 15.

 

[82] V. supra, nota 5.

 

[83] Per un'analisi critica della giurisprudenza e della dottrina fa­vorevole al transito per questa porta, cfr. BARBERA, Regioni cit., 18-23. A favore cfr. sopratutto VIRGA, La regione ecc., in St. sulla Costituzione, III, Milano 1958, 431; PALADIN, La potestà cit., 8 ss., il quale ritiene che il limite territoriale, in quanto limite di va­lidità della legge regionale, impone di guar­dare alle conseguenze che essa può provocare per le attività na­zionali o interregionali, e richiede quindi una comparazione dei vantaggi che la regione consegue con la legge de qua e gli svan­taggi che ne seguono per le altre regioni. In questa prospettiva, "svanisce ogni differenza fra il limite territoriale di validità ed il limite di merito" (PALADIN, La potestà cit., 13), tant'è che all'uno si ap­plica lo stesso tipo di giudizio di bilanciamento de­gli interessi che è ca­ratteristico del secondo. Che il giudi­zio di bilanciamento conduca automaticamente al giudizio di merito è però giustamente contestato da AMATO, Il sin­dacato cit., 387 ss.

 

[84] V. supra, nota 14.

 

[85] Su questo aspetto, cfr. in particolare AMATO, Il sindacato di costituzionalità cit., 157 s., 189 s., 383 ss; BAR­TOLE, Di una dubbia applicazione cit., in GiC 1969 1015 ss., 1022-1027.

 

[86] Sul punto, v. infra, § 7.

 

[87] Cfr. SORRENTINO, Considerazioni cit., 471 ss. Sull'argomento v. anche supra, nota 3 e § 3.

 

[88] Infatti, le leggi regionali "sono, nel linguaggio dei testi co­stituzionali, Errore. L'origine riferimento non è stata trovata. come le atre": sent. 64/1965. In precedenza però la Corte aveva accreditato la tesi per cui è solo alla legge statale che la Costituzione rinvia: cfr. sent. 4/1956.

 

[89] Cfr. SORRENTINO, Considerazioni cit., 480 ss.

 

[90] V. supra, nota 6.

 

[91] Cfr. MORTATI, Legislazione regionale esclusiva ed interesse na­zionale, in GiC 1956, 1001 ss.; TRIMARCHI BANFI, Le disposizioni di attuazione per gli statuti regionali, in ISAP, St. prelimi­nari sulle leggi cornice per le re­gioni, Milano 1968, 271 ss.; BASSANINI, L'attuazione cit., 163 ss.; PALADIN, Diritto regionale cit., 93.

 

[92] Cfr. BASSANINI, I decreti sul trasferimento ecc., in Il trasfe­rimento delle funzioni ecc., a cura di CALANDRA e TROCCOLI,  Roma 1972, 9 ss.

 

[93] CRISAFULLI, La regione davanti alla Corte cost., in RTDP 1963, 539.

 

[94] TRIMARCHI BANFI, Le disposizioni cit., 282.

 

[95] BASSANINI, L'attuazione cit., 165.

 

[96] Cfr. ad es. AMATO, Art. 4, in  I nuovi poteri delle regioni e degli enti locali, Bologna 1978, 103.

 

[97] Cfr. per es. BARBERA-BASSANINI, Introduzione a I nuovi poteri cit., 31; PEDETTA, Sul rapporto tra interesse na­zionale ecc., in Re 1982, 78 ss., 92 (in nota) e 96; STAIANO, Leggi organiche di trasferimento ecc., in Re 1984, 719 ss.

 

[98] Gli esempi sarebbero innumerevoli: ma per dare l'idea di come la Corte affronti il problema della giustifica­zioni di enclavi di competenza statale nelle materie attribuite alle regioni si pos­sono vedere, a titolo di mero assaggio, le sent. 177/1988 (gestione provvisoria delle farmacie rurali), 217/1988 (mutui age­volati per la prima casa), 472/1988 (misurazione del peso netto),  sent. 53/1991 (determina­zione ministeriale dei valori mi­nimi e mas­simi di emissione), sent. 507/1991 (sulle norme tecniche relative alle acque destinate al consumo umano), 220/1992 (in cui si giustifica la disciplina re­golamentare delle moda­lità organizzative e di funzionamento dell'albo na­zionale delle imprese esercenti servizi di smaltimento dei ri­fiuti), sent. 341/1992 (sulla regolamentazione dei corsi di quali­ficazione per l' accesso al profilo professionale di operatore tecnico addetto all'assistenza).

 

[99] Sent. 39/1971 (rel. Crisafulli), in cui la Corte giustifica l'attribuzione di questo potere al Governo come contropartita al prossimo trasferimento "organico" delle funzioni nelle materie. Ma già nella sent. 37/1966 la Corte aveva rifiutato la "concezione meramente negativa" del limite degli interessi, perché rischie­rebbe di pro­durre "una paralisi in settori di importanza nazionale preminente"

 

[100] Per un'indicazione bibliografica, sia pure di larga massima, sulla funzione di indirizzo e coordinamento, con riferimento ai soli scritti specifici, cfr: PALADIN, Sulle funzioni statali di indirizzo ecc., in GiC 1971, 189 ss.; BARTOLE, Supremazia cit., 84 ss.; PASTORI, La funzione di indirizzo e coordinamento, in Riforma regionale e organizzazione dei ministeri, Milano 1971, 27 ss.; BASSANINI, Indirizzo e coordinamento delle attività regionali, in La via italiana alle regioni, Milano 1972, 43 ss.; TREVES, La fun­zione statale ecc., in Le Regioni: politica cit., 251 ss.; BASSA­NINI, La funzione ecc. alla prova dei fatti, in Re 1975, 570 ss.; VOLPE, Nuove forme di esercizio ecc., in GiC 1976, I, 2241 ss.; CAMMELLI, Indirizzo e coordinamento ecc., in PD 1976, 573 ss.; Contributo allo studio della funzione statale di indirizzo e coor­dinamento, Roma 1978, a cura dell' Associazione studi amministra­tivi di Torino, con saggi di Di Giovine, Pizzetti e altri; CARLAS­SARE, "La tecnica e il rito" ecc., in GiC 1979, 757 ss.; GABRIELE, Il principio unitario nell'autonomia regionale, Milano 1980; TRI­MARCHI BANFI, Verso una 'delegificazione' delle norme di princi­pio?, in Re 1982, 1169 ss.; CARLASSARE, Atti governativi ecc. tra prin­cipio di legalità e riserva di legge, in Re 1982, 1190 ss.; BARTOLE,  Un test giudiziale ecc., in Re 1983, 542 ss.; COSTANZO, In tema di indirizzo ecc., in GiC 1983, I, 620 ss.; GABRIELE, L'esercizio in via amministrativa ecc., in GiC 1983, I, 666 ss.; PEDETTA, Funzione ecc. e sistema delle fonti, in GiC 1983, I, 672 ss.; CARLASSARE, I problemi ecc.: le soluzioni giurisprudenziali, in Re 1985, 29 ss.; CAMMELLI, Gli atti ecc. con veste amministra­tiva, ivi, 41 ss.; Spunti per una ricerca ecc., ivi 57 ss., con interventi di Falcon, Sorace, Vandelli, Carli, Bottari, Marpil­lero, Bartole;  FALCON, Art. 118 I° comma, in  Le Regioni, le Province, i Comuni, cit., 244 ss.; CARLASSARE, L'indirizzo e il coordinamento secondo la Corte cost., in Q.Reg 1987, 383 ss.; BIN,  Legislazione di principio e funzione ecc., in Re 1987, 207 ss.; MOR, L'indirizzo e coordinamento di fronte alla pro­grammazione, in Re 1987, 463 ss.; MEZZANOTTE,  Interesse nazionale e scrutinio stretto, in  GiC 1988,I, 631 ss.; La funzione di indi­rizzo e coor­dinamento, Milano 1988, a cura del CINSEDO, con saggi di Falcon, Gizzi e Orsi Battaglini; PINELLI, Criteri e tecniche nei giudizi sull'interesse nazionale, in Re 1989, 454 ss.; FALCON, Varianti giurispruden­ziali in materia  di indirizzo e coordinamento, in Re 1989, 207 ss.; FALCON, Spunti  per  una  nozione  della  funzione ecc. come vincolo di risultato, in Re 1989, 1182 ss.; BIN, Due passi verso la restaurazione ecc., in Re 1989, 1523 ss.; MELONCELLI, Errore. L'origine riferimento non è stata trovata..., in Enc. giur. XVI, Roma 1989; TRIMARCHI BANFI, Que­stioni for­mali in tema di indirizzo e coordinamento, in Re 1990, 1711 ss.; FEOLA, Ancora sul potere statale ecc., in Q.reg. 1990, 965 ss.; ANGIOLINI, Sulla poca coor­dinazione ecc., in Re 1991, 1265 ss.;  SCIULLO, Errore. L'origine riferimento non è stata trovata., in D.I., VIII, Torino 1992, 350 ss.; BARBATI, Inerzia e pluralismo amministrativo, Milano 1992, 183 ss.; CARETTI, Indirizzo e coordinamento e potere sostitutivo ecc., in Re 1992, 337 ss.; FALCON, Questioni quasi nuove e questioni nuove ecc., in Re 1992, 1291 ss.; GABRIELE, La funzione statale di indirizzo e coordinamento  ecc., Bari 1992.

 

[101] Come pura traccia di orientamento nella giurisprudenza cost., si vedano le sent. 39/1971, 138/1972, 142/1972, 191/1976, 150/1982, 340/1983, 223/1984, 177/1986, 195/1986, 49/1987, 304/1987, 177/1988, 474/1988, 560/1988, 744/1989, 1145/1988, 242/1989, 284/1989, 338/1989, 389/1989, 85/1990, 139/1990, 345/1990, 49/1991, 359/1991, 422/1991, 453/1991, 30/1992, 245/1992, 263/1992, 384/1992, 486/1992.

 

[102] Cfr. Corte cost. 340/1983 e, in dottrina, BARTOLE, Supremazia cit., 115 ss.

 

[103] Corte Cost., sent. 177/1988.

 

[104] Sottaciuta nelle prime sentenze  (cfr. sent. 138/1972, in cui si traccia il parallelo tra princìpi fondamen­tali che riguardano la potestà legislativa e funzione di indirizzo e coordinamento che riguarda la potestà ammini­strativa), questa doppia valenza degli atti di indirizzo e coordinamento diviene esplicita in quelle suc­cessive: cfr. per es. sent. 340/1983, 177/1988, 560/1988 ecc. Nell'ultima sent. citata la Corte parla di un'incidenza solo "indiretta" dell'atto governativo sulla legge regionale, alla quale "si richiede di non vanificare le esigenze unitarie mediante misure proprie che siano (singolarmente o nel complesso) equiva­lenti a quelle dettate in via di indirizzo e coordinamento", le quali sono co­munque destinate a cadere per "effetto automatico della legisla­zione regionale di dettaglio qualunque sia il contenuto di que­sta".

 

[105] Cfr., tra le tante, le sent. 340/1983, 357/1985, 177/1986, 107/1987, 177/1988, 564/1988, 242/1989, 37/1991.

 

[106] Cfr. ad es. le sent. 304/1987, 177/1988, 1145/1988, 101/1989, 284/1989, 338/1989, 389/1989, 359/1991,  507/1991, 517/1991, 263/1992 (con interpretazione "adeguatrice" della portata pre­scrittiva dell' atto governa­tivo), nonché, con riferimento alla previsione legislativa, sent. 340/1983, 195/1986, 49/1991. Nella sent. 560/1988 la Corte, ribadendo la necessità di un controllo sui contenuti espressi dagli atti governativi (o a que­sti deman­dati dalla norma legislativa istitutiva del potere specifico di indirizzo e coordinamento), ha però sottolineato che essi vanno valutati non in astratto ma "con specifico riguardo alla materia di volta in volta considerata, e cioè alla forza che le esigenze unitarie pos­sono in essa presentare e al tipo di criteri che la materia stessa comporta o esige". Già con le sent. 340/1983 e 357/1985, del resto, la Corte aveva indicato la possibilità che il rigore del test si attenui laddove sia in gioco la realizzazione di un valore costituzionale (anche se può dubitarsi che in pre­senza di un valore prima­rio si sia ancora nell'àmbito dell' indirizzo e coordinamento, e non piuttosto di una delimitazione in radice della potestà regionale: cfr., per un accenno, la sent. 177/1986). Sul variabile rigore del giudizio della Corte in riferimento all'interesse nazionale, cfr. PINELLI, Criteri cit.; CARETTI, Indirizzo cit., 340 s.

     Frequenti sono, laddove la regione impugni la previsione legi­slativa del potere governativo, le pronunce interpretative di ri­getto, con cui la Corte cerca di negare o ridurre la portata o la forza vincolante del potere attribuito dalla legge: cfr. ad es. le sent. 744/1988, 924/1988, 242/1989, 85/1990, 139/1990, 263/1992 (rigetto "interpretativo" del ricorso). Sul significato di questo tipo di pronunce, v. infra, note 109 e 115.

 

[107] Sent. 150/1982.

 

[108] Cfr. ad es. le sent. 150/1982; 307/1983; 223/1984; 304/1987; 560/1988; 284/1989; 338/1989; 346/1990; 49/1991; 204/1991; 359/1991; 517/1991; 30/1992; 384/1992; 486/1992.

 

[109] Su questa particolare, ma assai interessante, prassi del dop­pio giudizio della Corte sulla legge, in prima battuta, e sull'atto governativo conseguente, in seconda, cfr. ROMBOLI, Impugnativa regionale di legge statale ecc., in La giurisprudenza della Corte cost. di interesse regionale (1987-1990), Atti del Seminario di aggiornamento del Cons.reg. della Toscana, Firenze 1992, 114; BIN, "Coordinamento tecnico" e poteri regolamentari ecc., in Re 1993, 1449 ss.; ID., Impugnativa regionale di legge statale. Conflitti di attribuzione (aspetti sostanziali), in Reg.gov.loc. 1993 (in corso di stampa).

 

[110] Cfr. FALCON, Questioni cit., 1297 ss.

 

[111]   Va tuttavia sottolineato che, anche per quanto riguarda i regola­menti, da un lato, si pone il principio di le­galità sostan­ziale (cfr., ad es., le sent. 204/1991 e 355/1992), e, dall'altro, resta riaffermato, come punto di riferi­mento necessa­rio, che l'atto ministeriale deve essere rivolto alla tutela dell'interesse nazionale. Si noti però che qui, al contra­rio che per gli atti di indirizzo e coordina­mento, non vale anche il li­mite riferito ai contenuti normativi dell'atto: infatti non entra in considerazione il "risvolto po­sitivo" dell'interesse na­zionale, il quale si esprime nella fissazione di obiettivi, cri­teri gene­rali e linee uniformi per l'esercizio di attribuzioni re­gionali, che non devono essere risultare eccessivamente compresse. Qui l'interesse nazionale opera con le tecniche del ritaglio delle ma­terie: vi sono, cioè, "oggetti" che vengono direttamente disci­plinati dallo Stato. Se il "ritaglio" è disposto dalla legge sta­tale, la di­sciplina dell'oggetto "ritagliato" è di competenza sta­tale, senza che si ponga, neppure in linea di principio, alcun pro­blema di "quantità" o di "qualità" delle norme regolamentari conseguenti (cfr. , ad es., sent. 220/1992, 341/1992, 53/1991. 507/1991: v. supra, nota 12).

 

[112] Quanto al coordinamento tecnico,  quel che la Corte ci dice è che con esso si mire­rebbe ad ottenere una omo­geneità delle me­todologie ("tecniche", appunto) con cui operano ammini­strazioni diverse, e non po­trebbe perciò in­cidere sul merito delle scelte po­litico-ammini­strative delle re­gioni, né sulle solu­zioni organiz­zative o pro­cedurali attraverso cui quelle scelte si esprimono o si produ­cono (cfr., ad es., sent. 242/1989 e 139/1990, 483/1991, 507/1991 e 245/1992). Essendo una figura minore dell'indirizzo e coordina­mento, "depurata" da scelte po­litico-am­ministrative, il suo esercizio - assai spesso, per altro, affidato ad organi tec­nici (come l'ISTAT) - "non è disciplinato dalle re­gole proprie della funzione di in­dirizzo e coordinamento politico-amministra­tivo e, in particolare, non esige il rispetto delle norme procedu­rali attinenti allo svolgimento della predetta fun­zione" (sent. 85/1990). Per cui, quantomeno per gli atti di coor­dinamento tec­nico, sono individuati dei requisiti rela­tivi ai con­tenuti norma­tivi dell'atto, accertabili dalla Corte. Con la conse­guenza che, laddove la Corte constati che i contenuti dell'atto non sono "depurati" da scelte politiche, ma che ciononostante l'atto pre­senta le forme "minori" del coordinamento tecnico, lo annullerà, come è avvenuto nella sent. 384/1992 (relativa alle di­rettive go­vernative sulla gestione di bilancio).

     In giurisprudenza si vedano: sent. 214/1988, in materia di coordi­namento degli uffici sanitari nelle zone di confine; sent. 474/1988, sulle "direttive" del CIP che bloccano le tariffe dei servizi pubblici di trasporto; sent. 924/1988, in merito al "coordinamento" dei programmi promozionali regionali da parte dell'ENIT; sent. 242/1989, in riferimento alle norme della legge 400 sull'esercizio della funzione di indi­rizzo e coordi­namento e, in particolare, ai poteri di  dell'ISTAT; sent. 452/1989, a propo­sito delle misure ministeriali volte a razio­nalizzare l'utilizzazione delle strutture pub­bliche di diagno­stica; sent. 85/1990, in riferi­mento ai compiti di coor­dinamento dell'attività dei servizi tecnici provinciali affi­data, dalla legge sulla difesa del suolo, al Consi­glio dei di­rettori; sent. 139/1990, ancora sul "coordinamento tecnico" dell'Istat; sent. 49/1991, a pro­posito del coordinamento dei centri provin­ciali di coordinamento e compensa­zione in materia di raccolta del sangue, svolto dall'Istituto su­periore di sa­nità; sent. 483/1991 e 245/1992, con riferimento ad un potere re­golamentare del go­verno e dei singoli ministri relativo alla de­finizione di prescrizioni tecniche tese al ri­sparmio energe­tico. Per la dottrina, v. supra, nota 12.

 

[113] Cfr. sent. 304/1987, 148/1991, 204/1991, 422/1991, 453/1991, 384/1992, 486/1992

 

[114] Cfr. per es. sent. 49/1991.

 

[115] La diffusione sempre più massiccia di sentenze di rigetto in­terpretativo nel giudizio in via principale contro le leggi sta­tali (qualche esempio è citato supra, alla nota 106) è un feno­meno di grande interesse (nel biennio 1991-92, per es., almeno il 30% delle sentenze di rigetto pro­nunciate su ricorso delle regioni presentavano questa caratteristica), sintomatico della mo­dificazione della modificazione dello stesso contenzioso Stato-re­gioni. Sul fenomeno, oltre agli scritti citati alla precedente nota 109, cfr. ONIDA, I giu­dizi sulle leggi nei rapporti fra Stato e Regione ecc., in Re 1986, 986 ss., 1002 s.; DIMORA, Le sentenze inter­pretative di rigetto nei giudizi in via d'azione ecc., in Re 1987, 749 ss.

 

[116] Si vedano le leggi 153/1975 e 352/1976, nonché l'art. 6, III° c., del d.p.r. 616 e l'art. 11 della legge 86/1989. Nella giurisprudenza cost., cfr. sent. 142/1972, 182/1976, 81/1979, 86/1979, 304/1987 (che estende la giustifica­zione del potere sostitutivo ai casi in cui vi siano "comprovati motivi d'urgenza determinati dalla immi­nente sca­denza dei termini ... senza che le Regioni o le province abbiano l'effettiva possibilità d'intervenire tempestiva­mente"), 632/1988. Cfr. CARETTI, Il potere sostitutivo ecc., in Re 1979, 1170 ss.

 

[117] Cfr., per la sostituzione nelle funzioni amministrative dele­gate, l'art. 2 della legge 382/1975 e l'art. 4, u.c., del d.p.r. 616/1977. In seguito la stessa Corte ha ammesso l'estensione del potere di sostituzione alle ma­terie trasferite (sent. 153/1986: cfr. ANZON, Principio cooperativo e strumenti di raccordo ecc., in GiC 1986, I, 1039 ss.), assoggettando ad esso anche le regioni ad autonomia speciale (sent. 177/1986: cfr. SALA, Autonomie spe­ciali e poteri ecc., in Re 1987, 101 ss.). Sul contesto di questa evolu­zione cfr. LUCIANI, Nuovi rapporti fra Stato e Regioni ecc., in Re 1987, 385 ss., nonché COSTANZO, Poteri sostitutivi statali ecc., in Q.reg. 1990, 527 ss.

 

[118] Cfr. sent. 177/1986 (in tema di coordinamento della spesa sa­nitaria) e 49/1987 (in tema di finanziamento straordinario per fronteggiare l'alta tensione abitativa), in cui in nome dell'interesse nazionale vengono giusti­ficati atti di indirizzo e coordinamento puntuali, addirittura surrogatori. Sulla connessione del potere sostitu­tivo con la funzione di indirizzo e coordina­mento cfr. BARBATI, Inerzia e pluralismo cit., 183 ss.

 

[119] Cfr. in particolare CARETTI, Indirizzo cit., 342 ss., cui si rinvia anche per ulteriori indicazioni di giuri­sprudenza.

 

[120] Anche per l'attribuzione e l'esercizio del potere sostitutivo la Corte ha elaborato qualche criterio (una summa è contenuta nelle sent. 177/1988 e 85/1990): sia per quanto riguardano i pre­supposti formali - anche qui è richiesto il rispetto del principio di legalità sostanziale: sent. 43/1992 - e sostanziali - innanzi­tutto vi deve essere l'omissione della regione: sent. 830/1988; la sostituzione è ammessa quando sia indispensabile al processo di programmazione, specie se in relazione ad un valore costituzionale (come l'ambiente o la salute): sent. 294/1986, 617/1987; è richie­sto il rispetto del canone della proporzionalità: sent. 117/1986, 294/1986, 177/1988 - sia infine per il procedimento - soprattutto dopo la legge 400/1988, è richiesta la delibera del Consiglio dei ministri: sent. 177/1988, 460/1989, 85/1990, 37/1991, 386/1991, 352/1992 (v. però le sent. 533/1988 e 101/1989, in cui si ammette che la sostituzione sia decisa dal Ministro, in quanto "autorità di Governo"); il principio di "leale cooperazione" impone che l'esercizio concreto del potere sostitutivo nelle materie "proprie" delle regioni sia preceduto da diffida: sent. 304/1987, 830/1988, 533/1989, 85/1990, 21/1991, 37/1991, 49/1991, 483/1991, 427/1992.

     In dottrina cfr. MOR, Poteri sostitutivi nei confronti di U.S.L. ecc., in GiC 1986, I, 1667 ss.; CARAVITA, I "poteri sosti­tutivi" ecc., in PD 1987, 315 ss.; D'ATENA, Regolamenti ministe­riali e surrogazione delle Regioni, in GiC 1987, I, 2517 ss.; SALA, Autonomie speciali cit.; BARTOLE, La Corte  cost.  e la ri­cerca di un contempera­mento ecc., in Re 1988, 3, 563 ss.; GRECO, Il potere di sostituzione ecc., in FA, 1989, 876 ss.; CARETTI, La  piena competenza regionale cit., in GiC 1990, I, 2693; ID., Il po­tere sostitutivo statale ecc., in Re 1990, 1845 ss.: COSTANZO, Poteri sostitutivi statali cit., 527 ss.; COCOZZA, Regioni e di­ritto comunitario ecc., in Re 1992, 620 ss.; BARBATI, Inerzia e pluralismo cit., 86 ss.; CARETTI, Indirizzo cit.

 

[121] V. supra, § 4.

 

[122] Sent. 177/1988.

 

[123] La potestà cit., 11.

 

[124] Cfr. MEZZANOTTE, Interesse nazionale e scrutinio stretto, in GiC 1988, I, 631 ss.; PINELLI, Criteri e tecniche cit., Sul bilan­ciamento degli interessi nella giurisprudenza cost., cfr. in gene­rale BIN, Diritti e argomenti, Milano 1992.

 

[125] Un'illustrazione dei quali è contenuta, per es., nella sent. 177/1988.

 

[126] Un esempio di applicazione di quest'ultimo criterio (che non risulta applicato nei giudizi sugli atti di indirizzo e coordinamento): a pro­posito delle attività "di mera rilevanza internazionale", la sent. 472/1992 riconosce come ecces­sivo il regime dell'intesa, tipico delle "attività promozionali", ritenendo sufficiente a garantire l'interesse nazionale il meno oppressivo strumento del preavviso, cui si ricollega una sorta di silenzio-assenso (v. infra, § 7).

 

[127] Più elastica, per il "rafforzamento" dell'interesse nazionale, ne è l'applicazione quando in gioco vi siano "valori costituzio­nali" (v., a proposito dell' indirizzo e coordinamento, supra, nota 106: cfr. BARTOLE, Art. 117 cit., 212 ss.), oppure, all'opposto, trat­tandosi di incisioni di limitato rilievo nell'autonomia regionale, se si tratta di interventi a carattere essenzialmente "tecnico" (v. su­pra, nota 112).

 

[128] Il che può valere soprattutto per le situazioni di emergenza o di urgenza, nei vari modi in cui esse possono stimolare l'intervento dello Stato: cfr., in giurisprudenza, le sent. 304/1988 (in cui si giustifica in via generale la previsione di interventi sostitutivi dello Stato per "comprovati motivi d'urgenza" determi­nati da scadenze comunitarie), 533/1988, 617/1988, 633/1988, 324/1989, 459/1989, 36/1992; in precedenza la Corte aveva escluso che l'emergenza potesse giustificare compressioni dell'autonomia regionale: v. sent. 307/1983 e 245/1984. In dottrina cfr. PACE, Ragionevolezza abnorme ecc., in GiC 1982, 108 ss.; PINNA, Le com­petenze regionali in "condizioni" di emergenza, in Re 1984, 146 ss.; BARTOLE, La primarietà dei valori ecc., in Re 1986, 1284 ss.; TRIMARCHI BANFI, Indirizzo e coordinamento ecc., in Re 1987, ; ANGIOLINI, Urgente necessità ed emergenza ecc., in Re 1987, 1517 ss.; BIN, Sulla funzione di indirizzo e coordinamento ecc., in Re 1988, 514 ss.; ANGIOLINI, Emergenza che trovi ecc., in GiC 1989, I, 2126 ss; TERESI, Osservazioni minime ecc., in GiC 1988, I, 2523 ss.; PINNA, Competenze re­gionali e situazioni di emergenza cit., in Re 1990, 1416 ss.

 

[129] "Le regioni non possono svolgere all'estero attività promozio­nali relative alle materie di loro competenza se non previa intesa con il Governo e nell' ambito degli indirizzi e degli atti di coordinamento di cui al comma pre­cedente".

 

[130] Cfr. le sent. 46/1961, 21/1968, 170/1975, 123/1980, 187/1985, 179/1987, 924/1988; 256/1989. In dottrina cfr.: CIAURRO, Le compe­tenze regionali ecc., in Aff.soc. e internaz. 1979, 145 ss.; MORVIDUCCI, Le attività di rilievo internaz. ecc., in Re 1980, 983 ss.; SAPIENZA, Stipulazione di trattati internaz. ecc., in RDIn 1981, 590 ss.; STROZZI, Competenze regionali e potere estero dello Stato, in GiC 1981, I, 1000 ss.; ID., Regioni e adattamento del diritto interno al diritto internaz., Milano 1983; SALERNO, La partecipazione regionale al potere estro ecc., in RDIn 1983, 505 ss.; DONNARUMMA, Il decentramento regionale in Italia e il diritto internazionale, Milano 1983; PEDETTA, Riserva allo Stato ecc., in GiC 1985, I, 1796 ss.; AZZENA, Prospettive di cooperazione inter­regionale ecc., in Re 1985, 94 ss.; CARETTI, Le attività di ri­lievo internaz. ecc., in Re 1985, 107 ss.; DE SIERVO, Le Regioni italiane ed i rapporti ecc., in Q.reg. 1985, 12 ss.; LA PERGOLA, Autonomia regionale, "potere estero" ecc., in Scr. Crisafulli II, Padova 1985, 401 ss.; ID., Regionalismo, federalismo ecc., in Q.reg 1985, 940 ss.; CARETTI, Un'altra tappa ecc., in GiC 1987, 3039 ss.; STROZZI, Recenti sviluppi ecc., in RDIn 1988, 344 ss.; CONETTI, Turismo e attività regionali di rilievo internaz., in Re 1989, 1705 ss.; LIPPOLIS, Regioni, treaty-making power e giuri­sprudenza ecc., in GiC 1989, I, 1206 ss.; GIZZI, Il potere estero regionale, in Q.reg. 1989, 81 ss.; RONZITTI, I rapporti transfron­talieri ecc., ivi 95 ss.

     Altro problema è se la regione possa essere considerata "destinatario" degli obblighi internazionali as­sunti dallo Stato in via convenzionale, se sia chiamata quindi a dare ad essi attua­zione: uno spiraglio in questo senso (dopo le chiusure, per es., della sent. 142/1972) è stato aperto dalla sent. 124/1990 (cfr. la nota di D'ATENA, in GiC 1990, 707 s.).

 

[131]  Sent. 179/1987: punto 6 del "diritto".

 

[132]  Si veda a proposito anche l'art. 57 del d.p.r. 616 sull' uti­lizzazione dell' ENIT per la pro­mozione turistica all' estero.

 

[133] Sent. 472/1992.

 

[134] Sono attività "di vario contenuto, congiunta­mente compiute dalle re­gioni e da altri (di norma omologhi) orga­nismi esteri aventi per oggetto finalità di studio o di informa­zione (in mate­rie tecniche) oppure la previsione di partecipazione a manifesta­zioni dirette ad agevolare il progresso culturale o economico in ambito locale, ov­vero, infine, l'enunciazione di pro­positi intesi ad armonizzare unilateralmente le rispettive con­dotte"; deve in­somma trattarsi "di attività non collegate con si­tuazioni concer­nenti l'intero territorio nazionale e perciò ri­messe all'iniziativa degli enti locali", i quali però "non pongono in essere veri accordi né assu­mono diritti ed obbli­ghi tali da im­pegnare la responsabilità in­ternazionale dello Stato, ma si limi­tano ... a prevedere lo scam­bio di informazioni utili ovvero l'approfondimento di conoscenze in materie di comune interesse, oppure, ancora, ad enun­ciare ana­loghi intenti od aspirazioni, pro­ponendosi di favorirne unilate­ralmente la realizzazione mediante atti propri o, al più, mediante sollecitazione dei competenti or­gani nazionali": cfr. sent. 179/1987: punto 7 del "diritto", non­ché, per un'applicazione, la sent. 42/1989. Cfr. in dottrina CONETTI, Le attività regionali ecc., in Re 1987, 1423 ss.; CARETTI, Un'altra tappa ecc., in GiC 1987, I, 3039 ss.

 

[135] Cfr. sent.472/1992, punto 3 del "diritto".

 

[136] Cfr. ora, esplicitamente, sent. 204/1993, nonché, in prece­denza, l'ord., 250/1988.

 

[137] V. supra, § 3.

 

[138] D'Atena (in GiC 1990, 707 s.) segnala nella giurisprudenza più recente una tendenza a riconoscere alle regioni un potere di at­tuare direttamente, nell' àmbito della propria competenza, gli ob­blighi derivanti dai trattati in­ternazionali: cfr. sent. 830/1988 e 124/1990 (entrambe sull'attuazione della Convenzione di Berna sull' uccella­gione). Sui problemi tradizionali che si pongono in relazione all'attuazione dei trattati in materie regionali, cfr. LA PERGOLA, Note sull'esecuzione degli obblighi internazionali ecc., in GiC 1960, 1050 ss.; DE SIERVO, Il li­mite ecc., in Q.reg. 1987, 415 ss.

 

[139] Sul questo modello cfr. SCUDIERO, Attuazione delle direttive comunitarie e regioni, Napoli 1977; CARETTI, Ordinamento comunita­rio e autonomia regionale, Milano 1979; D'ATENA, L'esecuzione e l' attuazione ecc., in  GiC 1979, 1242 ss.; BASSANINI-CARETTI, Autonomie regionali e poteri comunitari, in Re 1980, 84 ss.; D'ATENA, L'esecuzione e l'attuazione delle norme comunitarie ecc., in  St. Amorth, II, Milano 1982, 193 ss.; STROZZI, Regioni e adat­tamento cit.; LA PERGOLA, Autonomia regionale, "potere estero" dello Stato ecc., in Scr. Crisafulli, II, Padova 1985, 401 ss.; STROZZI, Recenti sviluppi della disciplina dei rapporti ecc., in RDIn 1988, 344 ss.

 

[140] Su cui cfr. CERRI, Luci ed ombre ecc., in FI 1986, IV, 222 ss.

 

[141] Sugli aspetti della legge "La Pergola" che riguardano le re­gioni, cfr. BIN, Stato e regione nell'attuazione ecc., in FI 1988, IV, 499 ss.; TIZZANO, Note introduttive ecc., in FI 1989, IV, 314 ss.; D'ATENA, Prospettive del regionalismo ecc., in GiC 1989, II, 2167 ss.; GAJA, Le prospettive di sviluppo dell' attuazione ecc., in Q.reg. 1989, 55 ss.; CELOTTO, Problematiche sull' attuazione ecc., in DS 1990, 501 ss.; RUGGERI, Prime considerazioni sul ri­parto di competenze ecc., in Riv.it.dir.pubbl.comun. 1991, 711 ss.; CARETTI, Il ruolo delle regioni nell'attuazione ecc., in Reg.gov.loc. 1992, 817 ss.

 

[142] Sull'attuazione regionale dei regolamenti CE cfr., in giurisprudenza, le sent. 216/1987, 304/1987, 284/1989, 448/1990, e in dot­trina, oltre alle opere generali citate alle note precedenti, MARZONA, Materie regionali e po­tere statale ecc., in Re 1987, 1659 ss.; CARETTI-STROZZI, Luci e ombre nella più recente giurisprudenza ecc., in Re 1988, 196 ss.; BALBONI-PAPA, Regolamenti comunitari ecc., in GiC 1988, 352 ss.; PANEBIANCO, Regolamenti comunitari "non-autosufficienti", in GiC 1989, I, 1326 ss.; CARETTI, La piena competenza regionale cit., in GiC 1990, I, 2693 ss.; COCOZZA, Regioni e diritto comunitario cit., 631 ss.

 

[143] Art. 9, II° c., della legge 86/1989.

 

[144] Art. 9, III° c., della legge 86/1989.

 

[145] Art. 9, IV° c., della legge 86/1989 (che richiama l'attuazione in via regolamentare di cui all' art. 4 della stessa legge.

 

[146] Cfr. BIN, Stato cit., 502 s.; D'ATENA, Prospettive cit., 2170; RUGGERI, Prime considerazioni cit., 712 s.; CARETTI, Il ruolo cit., 828 s.

 

[147] V. supra, § 1.

 

[148] Cfr., a tal proposito, la sent. 632/1988, in cui la Corte af­ferma che tutte le regioni, quale ne sia il li­vello di potestà in materia, sono vincolate dalla normativa di principio emanata dallo Stato per l'attuazione delle direttive CEE.

 

[149] Vedi, nel modo più esplicito, la sent. 389/1989.

 

[150] Cfr. CARRETTI - STROZZI, Luci e ombre cit., 214 s.

 

[151] E, infatti, è spesso accaduto che le innovazioni comunitarie siano state recepite prima dalle regioni che dallo Stato: si pensi alla prima legislazione sulla VIA.

 

[152] Come il fenomeno si compia nell'ordinamento italiano è stato descritto, come è noto, in alcune fondamentali decisioni della Corte cost.: cfr. sent. 170/1984, 113/1985, 389/1989, 168/1991.

 

[153] Così si esprime la Corte nella sent. 389/1989. Sulla posizione delle strutture regionali di fronte a norme CE con effetto di­retto, cfr. BIN, Gli effetti degli "effetti diretti" sull'amministrazione regionale, in Reg.gov.loc. 1992, 845 ss.

 

[154] Così la Corte di giustizia CE in causa 102/1979 ("Commissione c. Belgio").

 

[155] V. supra, § 4.

 

[156] Così intitolava infatti il saggio di GALEOTTI, Osservazioni cit.

 

[157] Cfr. CRISAFULLI, La legge regionale cit. e Gerarchia e compe­tenza cit., entrambi del 1960. Per il dibattito teorico che ha preceduto le tesi di Crisafulli, cfr. l'ottima ricostruzione fat­tane da TOSI, "Principi fondamen­tali" cit., 26-51.

 

[158] V. supra, nota 88.

 

[159] Cfr. sent. 285/1990, 518/1991.

 

[160] Sent. 40/1972.

 

[161] Dal principio dell'unità dell'ordinamento giuridico, inteso come regola di coerenza sistematica piuttosto che di continuità temporale, la Corte ha tratto di recente il divieto per la legge regionale di regolare retroattiva­mente situazioni contemplate da una norma statale: sent. 389/1991.

 

[162] Più esattamente, la legge statale può produrre abrogazione delle norme regionali, mentre la legge regionale successiva "deroga" alle previgenti norme statali, che restano nell'ordinamento in funzione suppletiva (v. infra, nel testo): cfr., per un accenno, la sent. 21/1959 e, in dottrina, ZANOBINI, Gerarchia delle fonti ecc., in Comm. all Cost., I, Firenze 1950, 64; MAZZIOTTI, Studi cit., 75 s.; CRISAFULLI, La legge regionale cit., 275; MARTINES-RUGGERI, Lineamenti cit., 195. Va ricordato, però, che parte della dottrina ha rifiutato l'idea che la legge sta­tale possa abrogare quella regionale precedente, ritenendo in­vece che essa può solo causarne la dichiarazione di illegittimità: cfr. CUOCOLO, Le leggi cornice cit., 314 s.; ID., Diritto regio­nale cit., 139 s.; D'ATENA, L'automomia cit., 89 ss.; ID., Errore. L'origine riferimento non è stata trovata. cit., 987 s.; RUGGERI, Ancora in tema di leggi statali ecc., in RTDP 1977, 280; MARTINES-RUGGERI, Lineamenti cit., 198 s. Mentre altri Autori preferiscono ricostruire come abro­gazione, an­ziché come deroga, l'effetto delle nuove norme regionali nei con­fronti di quelle statali precedenti: cfr. GALEOTTI, Osservazioni cit., 115 s. Sull'argomento cfr. TOSI, "Principi fondamentali" cit., 79-87, con ulteriori indica­zioni bibliografiche.

 

[163] Per cui si deve ritenere che non vi sia abrogazione qualora una legge statale introduca princìpi che richie­dono applicazione differita nel tempo: cfr. PALADIN, Diritto regionale, cit., 106 (nota 69).

 

[164] Sent. 1/1956, in cui, come è noto, la Corte si occupa dell'impatto della nuova Costituzione sulla legislazione previ­gente.

 

[165] V. supra, § 4.

 

[166] Art. 6, d.p.r. 616/1977 e art. 9, 4 c., della l. 9 marzo 1989, n. 86. Cfr. anche la sent. 349/1991.

 

[167] Cfr. sent. 214/1985. Questa sentenza ha stimolato molti commenti in dottrina: cfr. ANZON, Mutamento dei "princìpi fondamentali" ecc., in GiC 1985, I, 1660 ss.; CUOCOLO, Il diffi­cile rapporto cit.; TOSI, Leggi di prin­cipio corredate ecc., in GiC 1985, I, 2678 ss.; CARLASSARE,  La "preferenza" come regola ecc., in Re 1986, 236 ss.; PEDETTA, L' "inerzia" delle regioni ecc., in GiC 1988, II, 87 ss. Cfr. inoltre, sull'argomento, CARLI, Il li­mite cit., 201 ss.

 

[168] Cfr. ANZON, Mutamento cit., 1666; CUOCOLO, Il difficile cit., 2670. V. inoltre supra, nota 163.

 

[169] Sulla "fattibilità" delle norme di dettaglio contenute nelle leggi statali, laddove esse implichino l'istituzione di nuove strutture, cfr. CARLI, Il limite cit., 204 s. E' appena il caso di notare come le norme di dettaglio dello Stato tendano necessaria­mente ad appoggiare la propria applicazione su strutture ammini­strative statali o "miste", in modo da poter funzionare comunque, anche laddove l'inerzia della regione sia totale.

 

[170] Va però sottolineato che le leggi cornice, anche per come sono di fatto redatte, non producono un irrigidi­mento dei princìpi della materia, i quali sono soggetti a continua evoluzione: sicché si possono produrre fenomeni di superamento dei princìpi ad opera della successiva legislazione statale (cfr. TOSI, "Principi fondamentali" cit., 65, 67, 70 ss.; CARLASSARE, La "preferenza" cit., 243; CARLI, Il limite cit., 200, ed AA. ivi citati). Questo fenomeno, che in fondo è un ri­flesso della mancata configurazione della legge-cornice come legge "rinforzata" (v. supra, nota 55) ed è un corollario implicito della non rilevanza dell'autoqualificazione legislativa dei princìpi (v. su­pra, nota 77), apre importanti spazi alla legislazione regionale, che può promuovere l'evoluzione del sistema giu­ridico introducendo soluzioni legislative nuove laddove i "vecchi" princìpi si dimo­strino ormai inadeguati ed ob­soleti.

 

[171] Sul divieto di disapplicare le leggi regionali v. supra, nota 160.

 

[172] V. supra, § 4.

 

[173] CRISAFULLI, Vicende della "questione regionale", in Re 1982, 495 ss., 502 ss.; ID., Lezioni cit., 210 s.; ANZON, Mutamento cit., 1668; CARLASSARE, La "preferenza" cit.; TOSI, "Principi fondamentali" cit., 59 ss.

 

[174] Cfr. sent. 195/1986, 226/1986, 165/1989, 49/1991. In dot­trina, cfr. le opposte valutazioni di LUCIANI, Nuovi rapporti cit. e CARLI, Il limite cit., 205 s. (nota 60).

 

[175] Cfr. LUCIANI, Nuovi rapporti cit., 393.

 

[176] Ferma restando la Corte cost. nel negare che princìpi possano essere accreditati sulla base di norme regola­mentari: v. supra, n. 76.

 

[177] Più difficile è comprendere quale effetto producano le norme di dettaglio emanate con atto amministrativo sulle preesistenti leggi regionali: la Corte si è espressa in forma alquanto evasiva, riferendosi all'ipotesi di "assenza" di norme regionali (ma dubbio resta se si riferisca a norme regionali "in armonia" con i nuovi princìpi o a qualsiasi norma regionale: cfr. LUCIANI, Nuovi rap­porti cit., 390 s.). Sul problema assai simile del rapporto tra atto governativo di indirizzo e coordinamento e legge regionale preesistente , si vedano le considerazioni di TRIMARCHI BANFI, Questioni formali cit.. La Corte ha però avuto modo di differen­ziare l'effetto cede­vole della norma regolamentare di dettaglio dal vincolo permanente che deriva al legislatore regionale dall'atto di indirizzo e coordinamento: cfr. sent. 49/1991.

 

[178] Cfr. CARETTI, Indirizzo cit., 345.

 

[179] Cfr., per es., CUOCOLO, Le leggi cit., 217 ss.

 

[180] Cfr. CALIFANO, Innovazione e conformità nel sistema regionale spagnolo, Milano 1988, cap. I.

 

[181] V. supra, nota 21.

 

[182] Cfr. sent. 174/1991, in cui si annulla, "limitatamente alla Regione Lombardia", la norma che assegna compiti specifici di po­lizia mortuaria al coordinatore sanitario delle USL.

 

[183] Ampliamente descritto supra, §§ 5-6.

 

[184] CARETTI, Il principio di sussidiarietà e i suoi riflessi ecc., in Q.cost. 1993, 16 s.