Bicamerale e sussidiarietà*

 

Roberto Bin

 

 

Sulla sussidiarietà c’è ormai una vasta pubblicistica. Viene ripetuto che la sussidiarietà è quel meccanismo per cui tutte le decisioni, le funzioni, le amministrazioni, il potere - brutta parola, il potere, ma così autentica! – scendono verso il basso, sono esercitati al livello più vicino ai cittadini, compatibilmente però con le esigenze di funzionalità; non solo, ma vanno anche da dentro a fuori, nel senso che tutte le funzioni, le amministrazioni, i soldi del potere, vanno dal pubblico verso il privato, purché sia l’attività dei privati sia adeguata al compito e l’intervento del pubblico non sia indispensabile. Questa, più o meno, è la definizione di sussidiarietà  che ritroviamo in tutti i contesti, in tutti i pamphlet, i giornali e nelle relazioni dei testi di legge, nelle leggi. Ci viene spiegato poi che le sue radici risalgono sicuramente alla “dottrina sociale” della Chiesa e, per questa via, a San Tommaso, e quindi forse ad Aristotele.

Tutto questo sarà anche bello, molto seducente ed anche edificante: ma, come giurista, continuo a non capire cosa significhi. Ho partecipato un giorno, qui nelle Marche, a un seminario in cui c'era anche il collega e senatore Massimo Villone, che è stato membro autorevole della Bicamerale: egli lanciava un pubblico appello ai giuristi perché aiutassero i “neo-costituenti” a scrivere una bella norma costituzionale sulla sussidiarietà. Ed io gli ho risposto: caro amico, se vuoi scrivere una bella norma sulla sussidiarietà tu devi prendere 10 - 20 bravi poeti, metterli in una stanza e chiedere loro di scrivere un bel poema sulla sussidiarietà – impresa difficile perché una parola tronca poco promette per la metrica e la rima; ma se tu lo chiedi a un giurista, il giurista ti risponderà che la sussidiarietà, di per sé, non significa nulla dal punto di vista del diritto: la sussidiarietà è quasi una presa in giro, ne più ne meno. Anzi potrei proporre un postulato della ragione giuridica per cui tanto più un testo normativo fa ricorso alla parola sussidiarietà, tanto più è pericoloso e truffaldino, nel senso che sta deviando l'attenzione da qualche problema; fa finta di dire una cosa giuridicamente significativa, ma forse non offre gli strumenti normativi necessari a che questa cosa diventi operativamente – ossia, giuridicamente – significativa.

Siccome il diritto non è poesia - purtroppo (ma anche per fortuna) - quando il legislatore introduce testi poetici nei testi normativi, e poi pensa che questi testi poetici servano a regolare le cose giuridiche, che possano andare in mano ai giudici ed essere da questi applicati, o si illude o sta gettando fumo negli occhi. Ed è questo che succede nel testo licenziato dalla Bicamerale, dove si fa un gran uso di parole nobili e di per sé inutili come ‘sussidiarietà’ e ‘federalismo’. Noi abbiamo un testo della bicamerale che trionfalmente inizia intitolando “Ordinamento Federale della Repubblica” e poi intesse un ricamo di parole attorno alla sussidiarietà: bello, ma questo testo non è il testo di una costituzione federale, e neppure di una costituzione autonomistica, è un brutto testo di una brutta costituzione squisitamente centralistica, che dedica al sistema “federale” nove articoli, mentre ne destina, unico caso al mondo, diciassette all'ordinamento della giustizia - questo per dire di quale pasta sia fatto il grande interesse della nostra classe politica, schierata ecumenicamente in Bicamerale, per il problema del federalismo, o anche, più modestamente, dell’autonomia.

Nominare di sussidiarietà, proclamare il federalismo non serve affatto a fare un passo avanti, ma solo a deviare l’attenzione dai problemi. La sussidiarietà è un’idea politica, appartiene ai programmi di politica legislativa, dove può essere un principio ispiratore del legislatore, un principio politico, ma non è già qualcosa capace di operare come criterio giuridico: è quello che ha concluso la Corte Costituzionale Tedesca, di fronte a una norma della Costituzione federale che parla, appunto, di sussidiarietà. Non chiedete a un giudice, seppure costituzionale, di operare col meccanismo della sussidiarietà, perché un giudice non sa che cosa significa questo termine, non lo può tradurre in criteri di giudizio: e questo l'ha detto non Roberto Bin, ma la Corte Costituzionale tedesca, che di giuristi ne conta tanti e di gran livello, e che lo ha detto quando è stata richiesta di dare applicazione a una norma della Costituzione tedesca che è presa ad esempio da tutti, tanto è vero che è stata trascritta nel trattato di Maastricht come principio fondamentale dei rapporti tra Unione Europea e Stati membri. Come mai? È semplice: il giudice tedesco ha detto che la sussidiarietà, anche se scritta in Costituzione, è e resta un concetto tutto politico; essa dice che le funzioni devono andare verso il basso, come tirate da un elastico, ma in presenza di un altro elastico, legato anch’esso alle funzioni, che le tira invece verso l'alto, un elastico chiamato efficienza; siccome il giudice non è ne può essere un misuratore dell'efficienza, la sussidiarietà non è una parola rivolta ai giudici, una regola da essi applicabile, ma una idea politica rivolta ai politici, un criterio per le successive valutazioni politiche. E così sarà anche, almeno nei primi anni, la vicenda della sussidiarietà a livello di Unione Europea.

Ciò non significa affatto che in Germania o nella Comunità Europea la sussidiarietà non sia applicata, ma se funziona lo fa non perché la costituzione tedesca o il trattato di Maastricht usino parola, ma perché essi hanno introdotto i meccanismi e gli strumenti necessari. Qui sta il problema: e cosa vuol dire la sussidiarietà dal punto di vista dei meccanismi? Come si può “strumentare” la sussidiarietà? Qui torna in ballo il giurista, perché gli strumenti devono essere scritti nella costituzione e nelle leggi, e la loro efficacia deve essere assicurata dai giudici.

La sussidiarietà ha implicazioni procedurali notevolissime: infatti in Germania hanno prima creato il procedimento della sussidiarietà e poi hanno introdotto la parola che ne esprime il senso politico; così è accaduto anche nella Comunità Europea. La Germania ha inventato la sussidiarietà perché la Germania ha inventato un sistema federale che si basa sulla sussidiarietà: si basa sull’idea che vada superata la vecchia concezione, di fatto già tramontata anche in America e in Svizzera, delle nette delimitazioni delle sfere di attribuzione del centro e della periferia. Nessun sistema moderno di tipo federale o regionale riesce a funzionare con la separazione netta dei compiti, per il semplice fatto che la globalizzazione comporta il superamento della logica parcellizzata della politica e del governo, per affrontare i problemi di vasta scala con il necessario coordinamento degli strumenti e delle politiche. La Comunità Europea è un esempio che parla da sé: è partita con competenze limitate solo ad alcune materie, l’agricoltura, le dogane, i dazi e così via, a cui si affiancava, appena accennata, una competenza residuale per avvicinare i mercati; ma alla fine la vera competenza forte è stata quella residuale. La distinzione tra competenza esclusiva della comunità e quella su cui invece la comunità aveva piccoli spazi d'operazione è saltata: è saltata perché la forza delle cose ha richiesto interventi sempre più vasti della Comunità e gli Stati membri, decidendo all’unanimità, hanno progressivamente ampliato l’area di intervento comunitario a quasi ogni settore delle attività umane, perché per un verso o per l’altro incidono sul mercato e sulla concorrenza. Se gli Stati convenivano che era utile legiferare a livello comunitario sul livello di rumore prodotto dai tosaerba, lo facevano, e lo facevano in nome della sussidiarietà, cioè dell’efficienza; l’unanimità era la regola procedurale che consentiva di non badare al problema se la certa materia era o meno di competenza della Comunità; e se poi qualche stato membro, ed in particolare la Gran Bretagna, guardava con fastidio alla progressiva concentrazione del potere decisionale nella Comunità, ecco che allora la sussidiarietà ricompariva, ma non solo come slogan politico, ma anche attraverso una serie di meccanismi procedurali ed operativi che consentono di difendere gli stati membri dall’eccesso di centralismo comunitario.

Insomma, la sussidiarietà ha funzionato in Germania prima, nella Comunità Europea dopo, e tutto sommato anche in Italia - già perché in Italia c'è già qualcosa di assai simile alla sussidiarietà, che opera con meccanismi giuridici che non sto a spiegare perché sono complicatissimi - nel senso di superare la separazione delle scatole delle competenze, di rimetterle tutte o quasi in un unico scatolone, e di decidere insieme come organizzarle e esercitarle. Come si vede, la sussidiarietà finisce con l'avere un valore soprattutto negativo, di dichiarazione di morte di un certo meccanismo istituzionale antiquato, il federalismo (o il regionalismo) dualista, separatista,  fatto di divisioni e conflitti, e la sua sostituzione con una procedura decisionale di tipo consensuale: mettiamo insieme i soldi, dicono tre amici, e decidiamo all'unanimità come spenderli: perché questo ci dà maggiori possibilità di azione, di rapidità, di intelligenza.

Questo è un primo versante della sussidiarietà, quello verticale; l'altro versante è orizzontale, quello che opera dal pubblico al privato, dallo stato alla società. È l'idea di alleggerire il peso degli interventi e della macchina pubblica dello Stato: qui i meccanismi costituzionali sono estremamente difficili da scrivere per il giurista, molto più che per la sussidiarietà verticale, per la quale una soluzione ce la dà la Germania, molto ci insegna l'Unione Europea, e tutto confluisce in una procedura di codecisione. Per la sussidiarietà orizzontale è molto più difficile: come si fa a scrivere che una certa funzione non deve esercitarla, mettiamo, la Regione, ma deve essere organizzata in modo che siano le famiglie a mobilitarsi, le associazioni etc.? come si fa a trascrivere tuttu questo in norme? Non basta certo esprimere un principio astratto come la sussidiarietà. La sussidiarietà orizzontale può essere attuata, mettiamo, da una legge regionale sui servizi sociali: ma si deve trattare di una legge che non parla di sussidiarietà, o al massimo vi accenna tra le (inutili) norme di principio con cui di solito le leggi regionali esordiscono; essa dovrà dire invece –per esempio– quali sono i criteri di priorità nell'accesso ai contributi, disegnare una serie di strumenti operativi, agendo su fattori diversi, quali case, posteggi, contributi per l'ascensore; la tastiera è estremamente estesa, ed è come si suona la tastiera che può dirci, alla fine, se si è realizzata la sussidiarietà; che la sussidiarietà venga o meno proclamata come principio ispiratore, all’inizio della legge o di ogni suo articolo, non cambia affatto il risultato.

Invece noi abbiamo ormai testi legislativi di ogni specie, compresa una proposta di riforma costituzionale - un feto di costituzionale che io francamente spero abortisca - che di sussidiarietà fanno grande sfoggio. Ormai è diventata una specie di collutorio della classe politica, la sussidiarietà: tutti sono favorevoli alla sussidiarietà, esattamente come tutti erano favorevoli al federalismo fino a qualche mese fa - ricordate quando l'intero arco politico, dalla destra alla sinistra, compresa Alleanza Nazionale che era stata contraria alle Regioni, si è scoperta federale? Oggi si parla molto meno di federalismo, ma piuttosto di sussidiarietà: però il tema è pressoché lo stesso, perché sul federalismo potrei esordire e continuare proprio con le stesse cose che ho detto sulla sussidiarietà.

Le stesso osservazioni potrei farle anche in riferimento al testo licenziato dalla Bicamerale. Sulla sussidiarietà è stata inserita una norma, nell’art. 56, considerata importantissima, su cui si è rischiata addirittura la rottura politica: “Nel rispetto delle attività che possono essere adeguatamente svolte dall'autonoma iniziativa dei cittadini, anche attraverso le formazioni sociali, le funzioni pubbliche sono attribuite a Comuni, Province, Regioni e Stato, sulla base dei princìpi di sussidiarietà e differenziazione”. Qui - vedete – sono espresse le due sussidiarietà: la sinistra diceva “quella che mi preme è la sussidiarietà verticale” e la destra diceva “no, bisogna anzitutto alleggerire il pubblico; quello che mi preme è la sussidiarietà orizzontale”: perciò su questa importante norma stavano per rompere. Ma purtroppo non hanno rotto, sono riusciti a scrivere una frase, brutta come italiano letterario, e nulla come significato giuridico, perché non cambia di un millimetro la realtà effettuale, non sposta un moscerino. Perché inutile? Perché si tratta di princìpi estremamente generici, che non possono operare se non attraverso valutazioni di opportunità politica, e mancano di qualsiasi strumentazione giuridica.

Parliamo di quella più strutturata, la sussidiarietà verticale. Continua il nostro bell'articolo: “È attribuita ai Comuni la generalità delle funzioni regolamentari ed amministrative anche nelle materie di competenza legislativa dello Stato o delle Regioni, ad eccezione delle funzioni espressamente attribuite dalla Costituzione, dalle leggi costituzionali o dalla legge alle Province, alle Regioni o allo Stato, senza duplicazione di funzioni e con l'individuazione delle rispettive responsabilità”. Tutto spetta ai Comuni salvo quello che viene loro tolto: come diceva Cassese in un suo articolo, se per caso il legislatore si dimentica di dire il contrario, i comuni si troverebbero a gestire l'esercito, le centrali nucleari, la marina militare, e perché no?, gli stessi Ministeri. Non è possibile? Certo che no: ma questo vuol dire che la regola di distribuzione delle funzioni sarà diversa da quella che ci si accinge a scrivere in Costituzione, ed esprimerà criteri diversi dalla semplice previsione che la legge possa sottrarre le competenze “naturali” dei Comuni; saranno criteri che ci diranno che le competenze possono avere sedi “naturali” diverse dai Comuni, cioè risponderanno a livelli d’interesse di scala diversa (provinciale, regionale, nazionale): il che è esattamente quello che ci dice oggi la Corte costituzionale. Questo criterio è la nostra attuale sussidiarietà, faticosamente elaborata dalla giurisprudenza costituzionale, attraverso centinaia di vertenze giudiziarie scoppiate in mancanza di strumenti giuridici più affidabili: e il nuovo testo costituzionale promette di ricacciarci nello stesso pantano.

Vi è di più: quale è la “legge” che può spostare le competenze lontano dai Comuni? È sottinteso che si tratta la legge statale. Questa è una delle mine che devono essere fatte esplodere prima che sia troppo tardi, e che serpeggiano in tutti i decreti Bassanini: è uno dei tipici frutti del centralismo che accomuna tutte le grandi organizzazioni d’interesse, i sindacati di ogni natura: ANCI e UPI si iscrivono a pieno diritto tra i grandi sindacati centralizzatori di questo paese, perché, in nome dell’autonomia locale, oggi stanno facendo una politica di centralizzazione micidiale. Come tutti i sindacati, preferiscono avere un assegnazione di competenza dallo Stato piuttosto di dover passare per la Regione: non si rendono conto delle implicazioni istituzionali che da ciò derivano, di quale fondamentale contributo stanno dando a tutte le vestali, più o meno spudorate, dell’amministrazione ministeriale. Il loro obiettivo è di far piovere il massimo di competenze sui Comuni e sulle Province? Ma facciamo un discorso onesto: i Comuni sono grandi istituzioni, il vero nucleo politico della storia d’Italia e, con il nuovo sistema elettorale, uno dei centri più efficienti politicamente. Ma sono anche i responsabili del massacro urbanistico delle nostre città e della svendita delle nostre coste e delle nostre montagne. L'Italia è l’unico paese in Europa che ha dato ai Comuni l'assoluta sovranità in materia edilizia, e il risultato è appunto quello che vediamo ovunque giriamo lo sguardo nelle periferie urbane e nei “paradisi” turistici. Come si fa a mettere un paese della Barbagia o un villaggio alpino di 400 anime a fronteggiare gli interessi economici dell'Aga Kan o della Fiat? Come si fa anche ad affidare responsabilità di tanto livello ad una commissione edilizia comunale, in cui se c’è un geometra è già molto? In base al principio di sussidiarietà, è un livello adeguato? I Comuni calabresi o quelli della montagna lombarda hanno la struttura politica, amministrativa, culturale, finanziaria per fronteggiare gli interessi economici e non economici in gioco, con un bilancio con cui non potrebbero comprarsi neanche un ombrellone sulla spiaggia che stanno lottizzando? Come si fa a dire, in nome della sussidiarietà, che tutte le funzioni amministrative vanno ai Comuni, dall'ambiente alla sanità: quanti sono i Comuni in Italia che sono riusciti ad avere la forza politica di contrastare la corporazione dei commercianti e chiudere i centri storici? Quanti sono stati in grado di esercitare decentemente questa tipica competenza comunale? E non parlo di Comuni minori, ma anche di grandi Comuni di storiche tradizioni come quello in cui vivo, Bologna, dove sul problema del traffico si sono seguite le rotte più diverse e dispendiose, senza mai venire a capo del problema, perché gli interessi economici sovrastano la forza politica di chi deve decidere. Se i Comuni non hanno risolto questo problema non è per colpa della mancanza di sussidiarietà, anzi in nome della sussidiarietà questa competenza andrebbe loro tolta, se non sono in grado di esercitarla.

La sussidiarietà è un arma a doppio taglio, perché l'efficienza può andare in senso contrario rispetto all'autonomia. Stiamo attenti al mito della sussidiarietà, stiamo attenti al mito dell'Amministrazione “vicino ai cittadini”, perché l'amministrazione è una cosa seria, cruciale per gli interessi dei cittadini, mentre la sussidiarietà è uno slogano equivoco, “buonista” ma pericoloso. Va nel senso dell’interesse dei cittadini? Pare che nessuno si sia posto questo problema nella Bicamerale, perché se no avrebbero scritto qualcosa di molto più semplice e “rivoluzionario”, che avrebbe dato ai cittadini lo strumento per difendere davvero la sussidiarietà, quella che può davvero interessare loro: se si guarda alla sussidiarietà dal punto di vista dei cittadini, basterebbe prevedere che il Comune sia l’unico interlocutore che il cittadino deve avere con l’amministrazione pubblica, con tutta l’amministrazione pubblica, il suo “sportello unico”, cui rivolgersi per tutte le pratiche burocratiche. Se i nostri bicameralisti si fossero preoccupati di più dei cittadini, nello scrivere il nuovo patto di cittadinanza che dovrebbe essere la Costituzione, si sarebbero preoccupati di  meno di dosare la distribuzione del potere politico-amministrativo, e di più di migliorare la vita dei cittadini e i loro rapporti con l’amministrazione: fissato il principio – questo sì invocabile davanti al giudice – che il cittadino ha il diritto di chiedere qualsiasi pratica all’ufficio comunale, tutti i rapporti tra i diversi livelli di governo avrebbero dovuto essere reimpostati in quest’ottica. Ma così non è stato, e ora siamo minacciati da una proposta di riforma costituzionale che non modificherà affatto le cose. Una sussidiarietà conclamata ma non strumentata, un potere incontrollabile dello Stato di riappropriarsi di qualsiasi funzione piaccia alle burocrazie ministeriali di esercitare, nessuna regola netta di ripartizione delle funzioni (la sussidiarietà vi si oppone), nessuna procedura di garanzia della codecisione (la sussidiarietà non è garantita), uno svuotamento di senso delle Regioni (ANCI e UPI godono di questo bel successo!), un federalismo da barzelletta, unico al mondo ad essere  costituito “dai Comuni, dalle Province, dalle Regioni e dallo Stato” (eh, la fantasia italiana!).

Vediamo ora come opera la sussidiarietà tra il pubblico e il privato. Prendiamo uno dei settori chiave, su cui da sempre si dibatte, cioè la scuola privata. La sussidiarietà è nata nell'enciclica papale pensando proprio all'educazione, alla scuola privata: lo Stato deve astenersi dall’intervenire nel settore educativo dove possono operare le famiglie e le formazioni sociali. Anche qui pare ci sia un certo consenso nel dire: alleggeriamo la scuola pubblica e lasciamo che fioriscano i cento fiori, il pluralismo educativo. Qui sorgono però alcuni problemi: cosa vuol dire sussidiarietà in relazione all’educazione? Il titolo di studio ha valore legale, e se sì può non esserci il controllo dei programmi? Dobbiamo garantire i livelli minimi educazionali: ma questo si porta dietro alcune conseguenze interessanti, perché se io, laico, volessi mandare mio figlio alla scuola dei preti perché mi è più comoda o perché insegnano bene il latino, sarebbe accettato mio figlio? Gli sarebbe garantito il diritto alla libertà di coscienza? Gli sarebbe garantito il pluralismo nel senso di avere insegnanti che non rispondono affatto all’indirizzo confessionale di chi organizza la scuola? E proprio un bel problema, perché se la scuola è privata, oggi come oggi, è riconosciuta come un’organizzazione di tendenza, cui sono garantite particolarità giustissime, poste a difesa del pluralismo: per esempio, l'insegnante che si sposa laicamente può essere espulso dalla scuola confessionale, perché il suo comportamento non è conforme al modello educativo della scuola.

Se applichiamo la sussidiarietà alla scuola, lo Stato dovrebbe ridurre la quantità di risorse che dà alla scuola pubblica “statale”, aumentando la quantità di risorse che da alla scuola privata, o meglio, alla scuola pubblica “non statale”. Già, perché pubblica la scuola deve restare, anche quella “privata” deve essere concepita come parte del “servizio pubblico educativo”, che però ha con gestore privato. Ma al privato devono applicarsi tutte le regole “minime” del servizio pubblico, e quindi anche nelle scuole confessionali si dovrebbe dire basta alla selezione delle ammissioni, alle preghiere in classe, all’ora di religione, alla discriminazione politica, ideologica o religiosa degli insegnanti ecc.: altrimenti avremmo perso, in nome della sussidiarietà, la difesa dei più irrinunciabili diritti costituzionali. Sono meccanismi delicatissimi, estremamente complessi, che vengono trattati nella maniera peggiore quando ci si limita a lanciare gli slogan. Sarebbe saggio fare piccoli passi, piccole sperimentazioni, qualche legge avanzata in settore ristretti; e invece vengono affrontati introducendo parole che sono parole destinate solo ad aprire il contenzioso, non ha fissare i punti di equilibrio.

Nel testo della Bicamerale nulla ci viene detto di più su come opera la sussidiarietà orizzontale; mancano, ancora una volta, gli strumenti. L'unico caso in cui la sussidiarietà vi viene praticata - non a caso, senza sentire il bisogno neppure di nominarla - è in un angolo delle infinite norme che la Bicamerale ha dedicato alla giustizia. La c'è una norma che è una esplicitazione del principio di sussidiarietà di cui non abbiamo ancora parlato, che è la sussidiarietà della norma penale: la repressione penale deve essere l’extrema ratio, l’ultimo strumento cui lo Stato ricorre. Principio di civiltà più volte dichiarato dalla Corte Costituzionale, sempre esaltato in tutti i trattati di diritto penale, che si ribella all’uso indiscriminato della minaccia del carcere per comportamenti che non hanno un particolare disvalore sociale: che il furto, l’omicidio, lo stupro siano dei reati, chiunque lo capisce e lo sa; ma come si fa a punire con sanzioni penali comportamenti non immediatamente percettibili nella loro gravità, come certe infrazioni, obiettivamente non gravi, alle leggi urbanistiche o a quelle ambientali? Altri possono essere gli strumenti di cui lo stato dispone, la sanzione penale restando uno strumento, appunto, sussidiario, da attivare solo quando strettamente necessario. Nel lavoro della Bicamerale tutto questo compare all’improvviso, con una bella norma - l'art. 129 - che dice che le norme penali devono tutelare beni di rilevanza costituzionale, ed aggiunge che nuove norme penali sono ammesse solo se modificano il Codice penale. Qui non c'è l’enunciazione di un principio, ma lo uno strumento attraverso cui quel principio può operare, uno strumento con cui il giudice può tranquillamente lavorare. Qui la sussidiarietà si fa, ma non si dice; negli altri casi si dice, ma non si fa.

 



* Relazione alla Conferenza su “Federalismo e solidarietà” promossa dall’Università del Terzo Settore, Portonovo 15 novembre 1997.