La riforma costituzionale

(risposte a 5 quesiti)

Roberto Bin

 

1. Il Senato

La questione del Senato delle Regioni è il problema più serio del nostro sistema regionale. L’esigenza di “regionalizzare” il Senato nasce da una semplice e ovvia notazione: qualsiasi politica complessa - mettiamo la politica dell’ambiente o della ricerca applicata all’industria – richiede coordinamento degli interventi dei diversi soggetti pubblici ( e non solo) e non può essere affrontata con efficacia ed efficienza attraverso azioni particolari e slegate. Tanto più il sistema decisionale e di gestione degli interventi è decentrato in periferia, tanto più forte è l’esigenza di un efficiente metodo di coordinamento. La frequente affermazione per cui una forte autonomia comporta un forte aumento della spesa pubblica – affermazione che è di per sé del tutto infondata – coglie però nel segno quando l’autonomia non sia costruita come sistema coordinato. La stessa idea che su ogni questione debbano esserci 22 leggi diverse, quanti sono i legislatori regionali e provinciali, dimostra come il sistema instaurato in Italia sia profondamente dispersivo e non corrisponda neppure agli interessi delle popolazioni locali: ma questa non è la conseguenza obbligata del “federalismo”, è solo la conseguenza sbagliata di un sistema privo di serie istituzioni di coordinamento e di “collaborazione”. Chiunque comprende che su molte questioni gli interessi delle popolazioni locali sarebbero molto meglio soddisfatti da una legislazione nazionale alla cui formazione, però, le regioni e le comunità locali fossero chiamate a partecipare, piuttosto che da una legislazione localmente differenziata e probabilmente carente della necessaria competenza di base, capacità di elaborazione, conoscenza delle innovazioni ecc. Piuttosto di 22 leggi locali di piccolo cabotaggio, non sarebbe meglio che la legge la facesse lo Stato con l’accordo delle Regioni, cioè la decidessero insieme? La risposa ovvia è sì, anche perché se la Regione scrive la legge insieme allo Stato, cercherà di scriverla in modo che corrisponda alle proprie esigenze e di conseguenza non avrà né bisogno di fare poi una legge diversa, né tanto meno di contrastare la legge dello Stato impugnandola di fronte alla Corte costituzionale. Basterebbe una legge nazionale, che però sia una legge di tipo “federale”, nata cioè da un’intesa tra i diversi livelli di governo.

Siccome le leggi le fa il Parlamento, la soluzione più ovvia sarebbe che, accanto ad una Camera “politica”, frutto di elezione diretta dei rappresentanti del popolo intero, ci sia una Camera che invece rappresenti le Regioni. Più o meno questo è il principio che informa tutti i sistemi federali. Il problema è come attuarlo. La semplice “regionalizzazione” del Senato non basta. È dal 1948 che il Senato è eletto “su base regionale”, ma non rappresenta però i “territori”, gli interessi delle Regioni. La riforma attualmente in discussione sposta di poco i termini del problema: il Senato pomposamente chiamato “federale” verrebbe eletto, esattamente come oggi, “a suffragio universale e diretto su base regionale”. Le uniche vere differenze – a parte la diminuzione del numero dei senatori – consisterebbero in due innovazioni: che i  senatori verrebbero eletti in ciascuna Regione contestualmente all’elezione dell’Assemblea legislativa regionale; che l’elettorato passivo sarebbe circoscritto “agli elettori che hanno compiuto i venticinque anni di età e hanno ricoperto o ricoprono cariche pubbliche elettive in enti territoriali locali o regionali, all’interno della Regione, o sono stati eletti senatori o deputati nella Regione o risiedono nella Regione alla data di indizione delle elezioni”.

Come si vede si prospetta più un Senato di notabili (non necessariamente legati da un vincolo reale con il territorio, visto che i parlamentari possono essere stati eletti ovunque) che un Camera di rappresentanza territoriale: come si dividerà al momento del voto, secondo la ripartizione delle Regioni o secondo divisione partitica? Si noti, oltretutto, che anche per i senatori è mantenuto il divieto di mandato imperativo, perché essi rappresentano “la Nazione e la Repubblica”. Forse consapevole della scarsa rappresentatività territoriale dei futuri senatori, la riforma prevede che partecipino all’attività del Senato, ma senza diritto di voto, “rappresentanti delle Regioni e delle autonomie locali” eletti ad inizio mandato dalle assemblee regionali e dai Consigli delle autonomie locali! Un vero guazzabuglio, che trasforma la facciata, ma non c’entra affatto l’obiettivo.

Comunque, se mai entrerà in vigore, la riforma del Senato (compresa la riduzione del numero dei suoi membri) avrà effetto, presumibilmente, non prima del 2016! Jefferson diceva che ogni generazione ha il diritto di scegliere la propria costituzione: in Italia c’è una generazione che sfacciatamente vorrebbe imporre la virtù (per es., la riduzione del numero dei parlamentari) ad una generazione futura senza che i suoi vizi ne restino minimamente scalfiti.

La distribuzione delle competenze tra le due Camere è estremamente complicata, e ciò già è un male: il contenzioso sarà quotidiano. Non entro neppure nel merito, perché se le materie “concorrenti” e le questioni che riguardano l’ “interesse nazionale” (etichetta estremamente equivoca, come ben si sa) devono essere “codecise” dalle Regioni, sono le Regioni che devono essere coinvolte, non dei notabili, probabilmente ex politici di punta parcheggiati nel ricco cimitero degli elefanti, che nessuno specifico titolo hanno per rappresentare gli interessi di un ente che già ha chi è democraticamente per rappresentarlo.

 

2. La “devolution”

Né la “devolution” originariamente proposta da Bossi (caso unico della storia, legge costituzionale approvata in prima lettura dalle Camere e poi insabbiata), né la riforma oggi in discussione (che il progetto Bossi ha assorbito) risolvono alcuno dei problemi che tormentano da tempo il sistema regionale italiano, e che anche la riforma del 2001 ha lasciato irrisolti. Tanto meno realizzano il “federalismo”. Anzi segnano una riduzione delle competenze delle Regioni. Vi è infatti un netto allargamento delle “potestà esclusive” dello Stato, che acquisirebbe competenza in materia, per esempio, di promozione internazionale del sistema economico e produttivo nazionale, di tutela della salute, di sicurezza e qualità alimentari, di sicurezza del lavoro ecc. Non dico che tutte le competenze “restituite” al centro siano ingiustificate (per es. che le grandi reti strategiche di trasporto e di navigazione di interesse nazionale o l’ordinamento delle professioni intellettuali siano di competenza statale non mi sembra sbagliato) ma certo non si può presentare questa restituzione come una vittoria del “federalismo”.

L’aumento delle materie “esclusive” dello Stato corrisponde ad una riduzione delle materie concorrenti, dal cui elenco le prime sono sottratte. Ma la “devolution” verrebbe compiuta dalla nuova “intitolazione” del terzo livello di competenza legislativa, quella comunemente definita “residuale”, ora  ribattezzata “potestà  legislativa esclusiva”: in essa sono elencate le quattro specifiche materie della proposta di Bossi (assistenza e organizzazione sanitaria; organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche; definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione; polizia amministrativa regionale e locale). L’impiego dell’aggettivo qualificativo “esclusive” aggiunto alle competenze “residuali” delle Regioni non deve però impressionare. Infatti restano comunque fermi i commi precedenti dell’art. 117 e, in particolare, le competenze esclusive dello Stato per ciò che riguarda i “livelli essenziali” delle prestazioni sanitarie, le “norme generali” per l’istruzione, l’“ordine pubblico” e l’“ordinamento penale”. È la stessa relazione governativa al disegno di legge costituzionale a tranquillizzare su questo punto, ribadendo l’intangibilità di questi limiti. Per cui le pretese “competenze esclusive” non si sottraggono affatto agli interventi legislativi dello Stato: non sono più “esclusive” di quanto lo siano già adesso le materie residuali, di cui le quattro materie elencate fanno già in larghissima misura parte.

Qui sta il punto. Il Governo si è sinora sistematicamente e rigidamente opposto ad ogni tentativo, sia pur timido, delle Regioni di esercitare le competenze che già vantano su quelle materie: questo è stato probabilmente il Governo che, nei fatti, si è dimostrato più centralista della storia degli ultimi decenni, impugnano sistematicamente tutte le leggi “innovative” con cui le Regioni hanno tentato di esercitare le attribuzioni loro riconosciute dalla riforma del 2001. Il risultato promesso con la “devolutionavrebbe potuto essere conseguito da tempo da un atteggiamento meno chiuso del Governo che si professa “federalista” attraverso un uso più “federalista” del proprio potere normativo e un impiego meno ottusamente centralistico dell’impugnazione delle leggi regionali.

Molto grave è poi che venga introdotto un limite generale “di merito” che il Governo può far valere impugnando le leggi regionali, per violazione dell’interesse nazionale. Che le “esigenze unitarie” debbano poter trovare protezione – in Italia come in qualsiasi sistema a governo “multilivello” - la Corte costituzionale lo ha affermato e ribadito anche dopo la riforma del 2001, indicando anche i modi e le condizioni: su questo la riforma avrebbe dovuto operare, cercando di aumentare il grado di razionalità del sistema. Invece l’introduzione di un potere tutto politico del Governo di impugnare qualsiasi legge regionale per qualsiasi motivo politico davanti ad un organo politico come il Parlamento annienta la stessa autonomia politica delle Regioni. Ovviamente su questo giudizio pesa anche la inconsistenza delle garanzie che le Regioni troverebbero nel Senato “federale”, così come progettato dalla rifroma.

 

2. I poteri del Premier

A nessuno sfugge che il sistema istituzionale italiano funzioni male; ma le cause di ciò stanno davvero nelle norme costituzionali? La risposta non può che essere negativa. Le norme costituzionali sulla c.d. “forma di governo” che vigono in Italia dal 1948 non sono diverse da quelle in vigore negli altri paesi europei: parlo ovviamente delle regole “formali”, perché è su di esse che la riforma vorrebbe incidere. Se il sistema politico italiano ha un rendimento diverso da quello degli altri paesi, e non ci soddisfa, ciò ovviamente non dipende dalle regole “formali”, ma dal modo in cui esse sono applicate e dal funzionamento di fatto del sistema politico. Pensare di poter cambiare il sistema politico attraverso nuove regole formali è di per sé sbagliato. Per esempio, che il Capo del Governo non possa revocare un ministro non c’è scritto da nessuna parte (quanto ne ha “revocati” già questo premier?): in Italia formalmente non si è mai usato il potere di revoca come strumento “formale” per il semplice motivo che i ministri rappresentano “pezzi” della coalizione di governo che, o se ne vanno per consenso del loro gruppo di appartenenza, oppure sono politicamente (non giuridicamente) inamovibili, perché la loro “revoca” d’autorità comporterebbe una rottura della maggioranza. Se così è, a che servirebbe conferire al premier un potere giuridico che nessuno mai gli ha negato se politicamente comunque non potrebbe usarlo? Quale norma “formale” efficace si potrebbe introdurre? Un divieto alla coalizione di revocare il consenso al governo? Un divieto di sciogliere la coalizione? Un autorizzazione al Governo a restare in carica senza la maggioranza o contro la maggioranza in parlamento?

Tutto il discorso sul “premierato” è fallace: o punta a garantire all’esecutivo di governare contro l’opinione e senza il controllo del parlamento (e allora saremmo fuori dalle regole di base di una democrazia rappresentativa) o è semplicemente un modo per fuorviare l’attenzione dai problemi reali che impediscono ai governi di lavorare con stabilità e efficienza. I mali stanno nel sistema politico, nella frantumazione dei partiti e, forse, nella frantumazione della società stessa: se non si risolvono questi problemi, ogni alternativa rischia di portarci verso un sistema autoritario. Ma per risolvere il nodo politico, bisogna introdurre non regole che riguardano la costituzione, ma semmai altri meccanismi, quelli che privilegiano e incentivano spudoratamente la frantumazione partitica e che si annidano nei regolamenti parlamentari, nel sistema elettorale, nella legislazione c.d. “di contorno” (par condicio, formazione delle liste elettorali, contributi elettorali ecc.). In astratto, dunque, ci sarebbero riforme utili, ma queste non toccano la costituzione; in concreto queste riforme produrrebbero vantaggi per alcuni gruppi politici e svantaggi per altri (per esempio, sfoltendo il panorama da tutte quelle liste meramente elettorali che si risolvono nel nome del leader e non rappresentano nulla di più). Queste riforme non si possono fare senza l’appoggio dei partiti minori delle coalizioni al governo (quale essa sia) per il semplice motivo che, se fossero efficaci, toglierebbero di mezzo proprio questi partiti. Essi invece sono del tutto d’accordo a modificare le regole costituzionali; ed è questa la miglior dimostrazione che le riforme costituzionali non servono a niente!

Sono però pericolose, perché innescano dinamiche autoritarie, abituano all’idea che la costituzione possa essere piegata a scopi tattici e che le regole si scrivono per fini contingenti. Già viviamo – e  da tempo – in una situazione di costante e macroscopica violazione delle regole attuali (delle norme dei regolamenti parlamentari, per esempio, che regolano l’andamento dei lavori, servono a garantire il dibattito, la pubblicità del confronto di idee, la valutazione approfondita degli emendamenti, il ruolo delle minoranze ecc.), in nome della “efficienza” dell’azione del Governo. La politica si sta sempre più liberando dei vincoli giuridici che le sono imposti a tutela della democrazia, della regolarità del gioco politico, dei diritti di libertà. Questa riforma, che non produrrebbe nessun sostanziale miglioramento delle prestazioni delle nostre istituzioni, ma sicuramente – anche per la grande confusione con cui è stata scritta – aumenterebbe il conflitto politico tra maggioranza e opposizione e tra gli stessi organi costituzionali (della qual cosa certo non c’è bisogno), segnerebbe un ulteriore indebolimento dell’obbligo che grava sulle istituzioni di rispettare le regole vigenti, obbligo su cui si fonda lo Stato di diritto.

 

3. La Corte costituzionale

L’aumento dei “politici” nella Corte costituzionale va proprio in questo senso, l’ennesimo strumento volto ad attenuare i vincoli che la politica deve avere in uno Stato di diritto (e i relativi controlli). Naturalmente è motivato in nome del “federalismo”.

In effetti l’idea che le Regioni concorrano a designare parte dei suoi componenti non è affatto assurda. L’attuale composizione della Corte è frutto di grande saggezza. Benché il problema dei Costituenti fosse essenzialmente quello di bilanciare le componenti “tecniche” (in primo luogo quelle provenienti dalla magistratura), giudicate per loro natura troppo conservatrici, con componenti “politiche” più innovative, alla prova dei fatti si è realizzato un importante equilibrio tra componenti che provengono dai due principali interlocutori della Corte: i giudici, che con i loro ricorsi danno “lavoro” alla Corte, e il Parlamento, delle cui leggi la Corte è giudice e che alle sentenze della Corte dovrebbe dare seguito con nuove leggi.

Non vi è dubbio che in uno Stato centralizzato, “regionale” ma non federale, le Regioni non potevano reclamare una propria proiezione nella Corte costituzionale. Questa, infatti, ha in cura la legalità costituzionale dell’ordinamento nel suo complesso: le questioni che nascono in relazione a leggi o ad altri atti delle Regioni sono viste non come semplici vertenze sorte tra due soggetti istituzionali, che la Corte è chiamata ad arbitrare, ma come problemi di compatibilità dell’atto in questione con l’intero ordinamento giuridico generale e i suoi diversi livelli di “princìpi”. In questa prospettiva, la composizione della Corte era il riflesso della supremazia dello Stato nei confronti delle Regioni.

Se una delle grandi innovazioni prodotte dalla riforma del Titolo V è la parziale attenuazione della supremazia dello Stato nei confronti delle Regioni, non c’è dubbio che sia legittimo prospettare un nuovo assetto della Corte costituzionale, coerente con i nuovi rapporti. Ma allora è necessario che la designazione di una quota dei giudici costituzionali avvenga proprio da parte delle Regioni. In linea teorica non sarebbe sbagliato che sia una competenza attribuita al Senato “federale”, ma solo a condizione che il Senato fosse una camera di rappresentanza autenticamente regionale, e non il cimitero dei notabili previsto dalla attuale progetto di riforma costituzionale. Aumentare la composizione “parlamentare” dei giudici acquista in questa situazione l’unico significato di sfasciare un equilibri saggio e delicato disegnato dai costituenti per cercare di rendere più “politico” un organo che dalla politica deve cercare di estraniarsi, se vuole mantenere la sua credibilità. Perché, se la componente politica la condiziona, a che cosa serve più la Corte? Quale autorità avrebbe per opporsi, in nome del diritto, alle decisioni democraticamente assunte dagli organi di rappresentanza politica?

Ecco come si inizia la demolizione di un altro pezzo, della “chiave di volta” dello Stato costituzionale. La demolizione continua poi con l’improvvida estensione della legittimazione all’impugnazione diretta delle leggi statali e regionali a più di 8000 comuni e 100 e passa province: una previsione che rischia di riversare sulla Corte un enorme contenzioso, ad alto tasso politico (quanti comuni di un colore politico impugnerebbero sistematicamente le leggi fatte da una Regione dominata dalla coalizione avversa?) e a basso tenore costituzionale, sino ad ingolfarla definitivamente.

 

4. Divisione o confusione dei poteri?

Il bilancio che mi sembra si possa trarre è che la riforma opera nel senso della confusione dei poteri, e non solo dei poteri. Traccia una forma di governo improbabile, inedita nel panorama della comparazione delle costituzioni prese di solito a raffronto, fatta di grandi annunci di rafforzamento del ruolo del premier e di numerosi freni e condizionamenti destinati ad ostacolarne l’azione. Difficile valutare, del resto, se e quanto il saldo netto della riforma corrisponderebbe ad un reale rafforzamento della guida politica del governo o se questo obiettivo, come anche il “federalismo”, sia più uno slogan da rivendere su certe piazze politiche che un risultato effettivamente acquisibile con i mezzi predisposti. Difficile svolgere un’analisi tecnica, quale quella richiesta dalla valutazione dell’equilibrio dei poteri, in un testo che è tecnicamente abborracciato. Si pensi soltanto alle conseguenze sistematica di un’entrata in vigore delle varie norme scaglionata in tre tappe dislocate lungo una decina di anni. E poi, come si può dare seriamente credito ad una riforma così ben meditata e tecnicamente confezionata da annunciare che entrerà in vigore solo con la legislatura successiva la norma che dispone “La Camera dei deputati è eletta a suffragio universale e diretto”, cioè la stessa identica norma che è attualmente in vigore (si leggano l’art. 56.1 Cost. in “combinato disposto” con l’art. 53.2 della legge cost. di riforma)? Questa è una costituzione, non il regolamento della bocciofila, e queste cose non possono essere tollerate. Sono l’effetti della fretta, della “blindatura” del dibattito e del voto parlamentare, di un uso dei arnesi di cristallo quali clave impugnate per sfondare il cranio ai nemici.

 

5. Soluzione alternative

Il giudizio è fortemente negativo, le alternative sono ovviamente tante. Posto che sono convinto che i difetti della forma di governo non vanno corretti attraverso riforme costituzionali, vedrei opportuni piuttosto correttivi da introdurre nel sistema elettorale e nella legislazione di contorno, come già ho accennato in precedenza. Se i meccanismi costituzionali vanno toccati, mi preoccuperei piuttosto di ridisegnare il ruolo del parlamento (e delle opposizioni in parlamento), il quale andrebbe tutelato con specifiche regole sul controllo della politica estera, della politica comunitaria, della politica finanziaria e di bilancio. Un parlamento efficiente e in grado di svolgere le proprie funzioni costituzionali è indispensabile, oltre che al paese, ad un governo che voglia operare efficientemente. Quando parliamo, piuttosto scioccamente per lo più, del c.d. deficit democratico dell’Unione europea dimentichiamo (o ne facciamo finta) che il deficit democratico, anche per quello che riguarda l’Europa, nasce e prospera nel nostro sistema istituzionale, soprattutto per il ruolo servile e inefficiente a cui (si) sono condannate le nostre strutture parlamentari.

Riforme andrebbero introdotte invece nell’attuale Titolo V, poiché la riforma del 2001 ha aperto più problemi di quanti sia riuscita a risolvere. In primo luogo, ancora, il problema del coordinamento del sistema “multilivello”.

Non mi riferisco soltanto al tema del Senato “federale”. Il problema del coordinamento e della cooperazione non si risolve affatto nel momento legislativo, infatti. Sicuramente è indispensabile che le leggi dello Stato che interferiscono nelle attribuzioni legislative, amministrative e finanziarie delle Regioni ottengano il consenso di chi rappresenta le regioni: ciò vale per tutte le leggi sulle materie “trasversali” riservate alla legislazione esclusiva dello Stato (“livelli essenziali”, “funzioni fondamentali”, “ambiente” ecc.), e per tutte le leggi di “principio” nelle materie concorrenti; ma ciò vale anche per la legge finanziaria e i suoi collegati, nonché per la legge “comunitaria”.

Ma accanto alla cooperazione sul piano della legislazione, la maggior parte del coordinamento ha contenuto necessariamente amministrativo. Non è pensabile infatti che il problema della fissazione dei livelli essenziali delle cure termali, la “determinazione delle modalità di assegnazione delle risorse derivanti dal pagamento degli oneri supplementari a carico dei mezzi d'opera agli enti proprietari di strade” o il “riparto tra le Regioni e le Province autonome delle risorse previste per gli interventi di prevenzione e difesa dagli incendi del patrimonio boschivo nazionale” (cito a caso dall’o.d.g. della Conferenza Stato-Regioni) sia affrontato da una Camera legislativa e risolto in forma di legge. Qui sono anzitutto le burocrazie a dover istruire le decisioni e gli esecutivi a trattare ciò che ha rilevanza. In ciò si esaurisce buona parte delle attività del Bundesrat in Germania (e del Consiglio dei Ministri nella Comunità europea): ed è questo il compito che viene espletato dal sistema delle Conferenze (Stato-Regioni, Stato-autonomie locali e “Unificata”) in Italia. Solo una cattiva semplificazione del discorso porta a considera il Bunderat tedesco come una seconda Camera. Non è affatto vero: il Bundesrat è un organo che, sin dalle sue origini ottocentesche, sta a sé: nessuna ambizione di essere un ramo del Parlamento, nessuna investitura democratica, se non quella che deriva dall’essere membro di un governo regionale; i ministri regionali che lo compongono rappresentano esclusivamente gli interessi del Land cui appartengono e che concorre a governare. Il Bunderat partecipa alla formazione delle leggi, di una certa quota di leggi, ma non è affatto un “Senato”.

Qualcosa del genere in Italia già c’è, e si chiama Conferenza dei Presidenti delle regioni, che a sua volta concorre a comporre altri organi, previsti dalle leggi dello Stato, di coordinamento dei governi delle regioni e del governo nazionale, la Conferenza Stato-regioni. Allora, se davvero volessimo risolvere quella che, a detta di tutti, è la madre di tutti i problemi del regionalismo in Italia, non è indispensabile intraprendere la difficile e sproporzionata strada della riforma del Parlamento. Basterebbe introdurre in Costituzione la previsione che sia istituita la Conferenza dei Presidenti delle regioni (e non la Conferenza Stato-Regioni, come previsto dal progetto di riforma in una delle sue poche previsioni apprezzabili) e che tutte le leggi che riguardano le Regioni devono essere approvate dalla Conferenza dei Presidenti. Poche regole procedurali sulla formazione delle leggi, insomma, e avremmo risolto il problema senza dover incidere sulla complicata mitologia delle istituzioni rappresentative, ma con una soluzione semplice, a basso costo ed alta efficacia.

Il che non significa che non vi debba essere in parallelo una progressiva “regionalizzazione” del Senato. La prospettiva di un sistema di governo a più livelli non può che prevedere più sedi di coordinamento, per cui, accanto al coordinamento tra esecutivi, potrebbe utilmente istituirsi un coordinamento tra legislativi, ripartendo responsabilità e ruoli. In questa ottica, anche una riforma del Senato che in qualche modo vi inserisca rappresentanze “politiche” democraticamente elette dai territori può essere utile e funzionale. Ma questo – a mio avviso – non può essere né l’unico né il primo passo da compiere: il primo passo è semmai la costituzionalizzazione della Conferenza dei presidenti di regione. Si tratterebbe però di una riforma piccola, con poco “colore” simbolico, e per di più molto efficace: esattamente l’opposto di quanto perseguono di solito i nostri “riformatori”.

Anche la Corte costituzionale potrebbe essere oggetto di una riforma, ma certo non in senso “punitivo”. Alla Corte costituzionale noi dovremmo invece erigere un monumento, perché di fronte a 50 anni di insipienza del legislatore statale e di incapacità dei politici nazionali a capire i problemi del regionalismo in Italia, e quindi di introdurre i necessari accorgimenti istituzionali, si è fatta carico di risolvere i problemi delle relazioni tra Stato e Regioni attraverso le proprie sentenze. Molto spesso problemi politici sono stati camuffati da problemi giuridici, è ovvio, visto che la Corte costituzionale è un giudice e solo di diritto si può occupare; ma a ciò si è piegata in funzione di supplenza. Incolpare il supplente per aver fatto male il proprio compito lo possono fare tutti, ma non il supplito!

Tuttavia, come già si è detto, un sistema “regionale” calibrato avrebbe bisogno probabilmente di un organo di tipo arbitrale che risolva i conflitti, quei non molti conflitti che non troverebbero una mediazione nel sistema procedurale di “codecisione”. Ma da questo punto di vista non è necessario modificare la composizione dell’attuale Corte costituzionale, perché basterebbe introdurre un “Tribunale di primo grado”, composto paritariamente, che tratti solo le questioni regionali e le cui decisioni, se toccano i diritti fondamentali, siano impugnabili di fronte alla Corte costituzionale. Ma anche questa sarebbe una soluzione troppo poco appariscente per la politica dell’immagine che oggi sembra l’unica a contare!