LA CORTE COSTITUZIONALE TRA POTERE E RETORICA: SPUNTI PER LA CO­STRUZIONE DI UN MODELLO ERMENEUTICO DEI RAPPORTI TRA CORTE E GIU­DICI DI MERITO

 

 

 

1. Vorrei proporre un modello esplicativo dei rapporti tra Corte costituzionale e giudici di merito, che faciliti la comprensione di fenomeni quali il "diritto vivente" o le sentenze "additive". Ma devo sottolineare che proprio di un "modello" si tratta, perché esso si basa su alcuni caratteri essenziali, ma fortemente sempli­ficati e assolutizzati, della realtà di quei rapporti: non si pone, quindi, come una descrizione fedele della realtà, ma come la sboz­zatura di un sistema di cui si intende evidenziare la coerenza in­terna, per poi, in nome di essa, giustificare una certa ricaduta prescrittiva, in forma di soluzione normativa di alcuni problemi che si pongono nei rapporti tra Corte costituzionale e giudici di merito.

     Ho aggiunto l'aggettivo "ermeneutico" per evidenziare il ca­rattere filosofico, "esistenziale", della premessa da cui prendo le mosse: essa regge tutto il ragionamento che mi propongo di svolgere, e la coerenza di questo dovrebbe poi, a sua volta, avvalorare la credibilità della premessa stessa. In essa, la distinzione tra disposizione e norma, ormai usuale nei nostri studi, viene amplificata e caricata di signifi­cati, che usualmente non sono percepiti quando questa distinzione entra nella prassi ordinaria di analisi della giurisprudenza co­stituzionale: sino a trasformarsi nella contrapposizione di due mondi, il mondo degli atti di potere e il mondo degli atti reto­rici.

     Le disposizioni appartengono al campo dei testi, dei segni, degli atti scritti; le norme al campo dei significati, dei frutti dell'interpretazione. Le disposizioni sono espressione di atti di potere: sono poste, imposte dal legislatore (disposizione e ordine sono sinonimi). Le norme sono espressione di atti retorici: sono "accreditate" dall'interprete e s'impongono agli altri interpreti solo grazie alla loro forza persuasiva, al credito che esse si guadagnano presso la "comunità degli interpreti"[1] come "vere" in­terpretazioni delle disposizioni. Perciò le leggi - veicolo arche­tipico di emanazione delle disposizioni - non sono motivate; perciò lo sono, invece, le sentenze, che sull'interpretazione (delle di­sposizioni e dei fatti) si fondano: la motivazione serve alla giu­stificazione dell'interpretazione (cioè della costruzione delle premesse della decisione: la giustificazione "esterna"), la giu­stificazione serve alla persuasione degli interpreti.

     Persuasione e atti retorici richiedono destinatari definiti, un uditorio. Qual'è l'uditorio cui la Corte costituzionale rivolge i suoi atti retorici (le sue motivazioni)? La Corte manca dell'interlocutore fisso che fronteggia i giudici di merito, cioè il giudice d'appello. In compenso la Corte ha accesso in posizione privilegiata all'interlocutore "politico", il legislatore, il pro­tagonista degli "atti di potere". Inoltre la Corte, come "interprete", ha complessi rapporti retorici con la "comunità de­gli interpreti", che qui possiamo riduttivamente identificare con i giudici di merito.

     Anche l'atto di potere, la disposizione, ha per destinatario la comunità (la comunità generale, di cui la comunità degli inter­preti è, come vedremo, sezione "privilegiata"). Ma mentre il suo "messaggio" è omnidirezionale, come è proprio della prescrizione, l'atto retorico, l'interpretazione, entra in un sistema comunica­tivo circolare. Essendo rivolto alla persuasione, è modellato sulle reazioni dell'uditorio.

     Il "diritto vivente" è l'esempio più ma­croscopico, nel nostro àmbito, di questo rapporto retorico circo­lare. Esso è l'insieme dei significati che la comunità degli in­terpreti ha selezionato come interpretazione più "accreditata" delle disposizioni (che la comunità stessa ritiene) vigenti; è l'insieme delle convenzioni stipulate dai componenti della comu­nità.

     Membro anch'essa della comunità, la Corte generalmente si ade­gua alle sue convenzioni. Il conformismo è molto più forte di quanto non si percepisca: si pensi solo a quanto la Corte ha assi­milato (per impiegarlo poi nel suo specifico campo di interpreta­zione, la Costituzione) dagli altri giudici per ciò che riguarda le tecniche di interpretazione (l'argomento sistematico, per esem­pio), i moduli di base del ragionamento (il giudizio analogico, per esempio), le tecniche specifiche (vedi quanto evidenzia nel suo intervento Marilisa D'Amico a proposito delle tecniche usate per limitare gli effetti temporali delle pronuncie di accoglimento), l'attribuzione di significato giuridico alle nozioni impiegate dal testo costituzionale (la gesetzeskonforme Auslegung di cui parlava Leisner alcuni anni fa). Il "diritto vivente" non è quindi che il modo più recente e più aperto di manifestarsi della comu­nità. Lo si potrebbe dire la comunità degli interpreti oggetti­vata.

     Il "diritto vivente", come figura specifica del dialogo reto­rico, compare in vesti diverse nella giurisprudenza costituzio­nale. La Corte può richiamarlo per opporre al giudice dissenziente l'opinione prevalente della comunità, rigettando perciò la que­stione che origina da un comportamento interpretativo non con­forme. La Corte può proporlo, con sentenze interpretative di ri­getto che sollecitano la comunità ad accreditare una interpreta­zione conforme a Costituzione, laddove la comunità non si sia an­cora sufficientemente espressa. La Corte può correggerlo, dichia­rando illegittimo il significato che la comunità assegna ad una certa disposizione.

 

2. Quest'ultima facoltà rivela il particolare ruolo che svolge la Corte nella comunità degli interpreti. Essa ha il potere di tra­sformare atti retorici in atti di potere.

     In verità questo potere è comune a tutti i giudici. Il "dispositivo" (l'etimologia non lascia àdito ad equivoci) è un "atto di potere", con cui, per usare la terminologia della Reine Rechtslehre, si realizza "la continuazione del processo di produ­zione del diritto dal generale al particolare"[2]. Ma la particola­rità della Corte è di poter fare quello che a nessun altro giudice è consentito, cioè "disporre" sullo stesso piano del legislatore, emanare "atti di potere" che incidono, trasformandoli, sugli stessi atti di potere che vincolano i giudici. Quando la Corte pronuncia una sentenza di accoglimento, modifica l'ordine delle disposizioni legislative vigenti. E la comunità degli interpreti deve rivolgersi alla Corte perché operi questa "trasformazione", liberandola dall'insostenibile legame con un "testo" ritenuto in­compatibile con il sistema normativo.

     E quando la Corte emana una sentenza "additiva"? Il carattere "interpretativo" di tali pronuncie non deve trarre in inganno. Se concepiamo la Corte come un "trasformatore" che mette in comunica­zione orizzontale il mondo dell'interpretazione con il mondo della legislazione, non c'è dubbio che tutti i suoi dispositivi di acco­glimento appaiono come atti di potere, equivalgono alle disposi­zioni legislative. L'appellativo di "interpretative", che di so­lito si attribuisce a queste sentenze, è solo una traccia genetica residua, esattamente come lo è nelle leggi di "interpretazione" autentica.

     Il segno "fisico" di questo potere della Corte è dato dallo stesso modo con cui sono formulati i dispositivi di accoglimento. Mentre la sentenza del giudice ordinario pone una "norma giuridica individuale" (Kelsen), la Corte pone norme generali che specifi­cano il contenuto delle disposizioni di legge ordinarie come vanno lette, secondo i canoni di una doverosa interpretazione sistema­tica, alla luce delle norme costituzionali. Sono disposizioni do­tate di tutti i requisiti necessari, compresa l'indicazione delle condizioni di applicazione[3] o dell'autorità a ciò competente[4]; e talvolta sono fraseggiate come vere e proprie leggi provvedimento, destinate ad essere applicate a fattispecie chiuse di interessati, individuate con attenzione dalla Corte stessa[5], oppure, tutto all'opposto, come disposizioni di principio che rinviano al legi­slatore il compito di attuazione - concretizzazione, dettando ma­gari, in attesa del suo intervento, la disciplina transitoria[6].

 

3. Una prova manifesta della posizione liminare che la Corte oc­cupa tra i due emisferi è offerta dall'uso del ragionamento analo­gico. E' uno degli strumenti più accreditati dell'arsenale su cui può contare la comunità degli interpreti, che consente loro di "creare" norme nuove sulla base delle disposizioni legislative vi­genti.

     Il ragionamento analogico è però anche lo schema che strut­tura il giudizio "trilaterale" che la Corte opera in nome del principio di eguaglianza. Che si tratti di un giudizio perfettamente sovrapponibili al ragionamento analogico, lo mo­stra la Corte stessa quando: a) dichiara l'infondatezza  della questione perché l'estensione della classificazione legislativa  è stata già compiuta dalla Cassazione in via di interpretazione[7]; b) dichiara l'illegittimità della disposizione legislativa "nella parte in cui ...", esplicitamente riconoscendo che lo stesso ri­sultato poteva essere (o era stato raggiunto) in via di interpre­tazione dal (o da altro) giudice di merito[8]; c) dichiara di non poter modificare con sentenza additiva le classificazioni trac­ciate dal legislatore (perché riservate alla discrezionalità di questi), pur restando al giudice ordinario il compito di riequilibrarle operando in via di interpretazione[9].

     Ora, benché le operazioni intellettuali richieste dai due giu­dizi siano le stesse, radicalmente differenti ne sono invece gli effetti. Perché l'analogia si conclude con l'estensione della norma a nuove fattispecie (o con la creazione di una nuova norma, adeguata alla nuova fattispecie: la teoria è, com'è noto, divisa); mentre il giudizio di eguaglianza, quando non si esaurisca anch'esso in un'interpretazione analogica (estensione della fattispecie norma­tiva attraverso una sentenza interpretativa di rigetto), conduce ad una definitiva modificazione delle potenzialità semantiche della disposizione de qua, dichiarata illegittima "nella parte in cui ..." esprime o non esprime un certo significato.

     La stessa operazione, quindi, può o compiersi interamente all'interno dei rapporti retorici istituzionalizzati nella comu­nità degli interpreti (estensione al caso di specie di una deter­minata norma, suffragata dalla necessaria motivazione circa il contesto, la ratio ecc.), oppure uscirne, per incidere sul piano delle disposizioni legislative, aggiungendo al vecchio "testo" un "testo" del tutto nuovo, che del primo cerca di specificare il po­tenziale significato. Un'operazione, dunque, che, se condotta nell'àmbito degli atti ermeneutici, ha la stessa struttura e tecnica espressiva delle al­tre operazioni interpretative, ma, nell'àmbito degli atti di potere, acquista la stessa struttura e formulazione delle leggi: che dif­ferenza c'è, in fondo, per come sono formulate o per come cercano di influire sui soggetti dell'applicazione, tra la "regola" che esprime la Corte in un dispositivo additivo e la disposizione che emana il legislatore come "interpretazione autentica"?

 

4. Ogni volta che si dica apertamente che la Corte opera con le sembianze del legislatore (e certo non del kelseniano "legislatore negativo", trattandosi di sentenze additive), risorge immediata­mente, in tutta la sua immensità, il problema della legittimazione del giudice costituzionale. Benché immenso, il problema non è del tutto ozioso, perché dalla sua impostazione scendono conseguenze rilevanti per la comprensione dei limiti che la Corte incontra nel sindacato sulle leggi. Ovviamente, se si parla di "limiti", sarebbe necessario precisare in quale contesto (giuridico, politico, morale­?) si col­lochino essi, nonché i controlli e le sanzioni conseguenti.

     Devo accennare a questo problema - la cui importanza è del tutto sproporzionata alle poche righe che qui posso dedicargli -

per due ragioni. In primo luogo, perché sembra che proprio nel "modello" che qui si sta delineando esso possa trovare un contesto preciso ed un'impostazione coerente ed esteticamente pregevole. In secondo luogo, perché una corretta impostazione di questo problema sembra consentire di eliminare alcuni equivoci circa la forza vin­colante delle sentenze della Corte nei confronti dei giudici, che è il problema principale di cui vorrei trovare la soluzione.

     All'interno del modello tracciato, il problema della legitti­mazione della Corte può essere impostato in questi termini. Muovo da un postulato: che la Corte, per sua stessa natura, non possa e, ciò che è più importante, non debba corrispondere ad un principio di investitura democratica, in quanto "essa è un mezzo di prote­zione efficace della minoranza contro gli abusi della maggio­ranza"[10]; l'investitura della Corte si basa dunque su un principio opposto e necessariamente concorrente con quello rappresentativo.    

     Il principio rappresentativo fonda la legittimazione del legi­slatore, gli consente di esprimere legittimamente la sua volontà in atti di potere: essendo "eterofondati", i suoi atti non necessi­tano di motivazione. La Corte motiva le sue sentenze perché sono "autofondate", nel senso che il dispositivo si giustifica con la motivazione e viceversa. Ma la legittimazione della Corte nel suo complesso si basa sul consenso della comunità degli interpreti, ed è ad essi che la motivazione della singola sentenza deve rendere conto. E' l'uditorio che deve accreditare la Corte di quelle ca­ratteristiche di razionalità, neutralità e conformità alle metodo­logie interpretative avvalorate, che possono far ritenere l'operato della Corte come espressione di un'istanza di raziona­lità "neutrale" contrapposta alla volontà "rappresentativa" del legislatore. Però, così come il dissenso sulla singola legge non può (salvo casi davvero estremi) incrinare la legittimazione del legislatore, il dissenso sulla singola sentenza (salvo, anche qui, ipotesi assolutamente estreme) non può destituire di legittima­zione la Corte. Nell'uno e nell'altro caso il dissenso non incrina la obbligatorietà dell'atto.

 

5. Può il giudice di merito disattendere la sentenza della Corte, disconoscendole il potere di compiere "addizioni" (o manipola­zioni) alle disposizioni legislative? Nel mio modello decisamente no, sebbene ciò non significhi affatto che i giudici di merito subi­scano per ciò alcuna compressione delle loro attribuzioni.

     La Corte ha la funzione di "trasformare" atteggiamenti reto­rici in atti di potere, nel "dispositivo". La Corte muove da un testo, la disposizione; lo sottopone ad un procedimento ermeneu­tico suffragato da regole retoriche (la motivazione), ricavandone conseguenze che si ripercuotono sul significato attribuibile al testo stesso. 'Attribuibile' significa legittimo sotto il duplice punto di vista delle metodologie interpretative e della compatibi­lità con la Costituzione: le metodologie interpretative apparten­gono al patrimonio comune della comunità; il giudizio di compati­bilità è competenza della Corte (anche se l'atto d'impulso pro­viene - almeno nel giudizio incidentale - da altri membri della comunità).

     L'atto di potere della Corte, il dispositivo, dichiara ille­gittimo un determinato significato che la comunità ritiene incluso  nelle (o escluso dalle) potenzialità semantiche della disposi­zione. Dalla comunità si avanza il sospetto che questa inclusione (o esclusione) sia illegittima: la Corte risponde o con un atto retorico (la sen­tenza di rigetto), interlocutorio come tutti gli atti retorici (inter partes), o con un atto di potere: l'annullamento della norma inclusa nelle (o esclusa dalle) poten­zialità semantiche della dispo­sizione.

     Il dispositivo, atto di potere, appartiene al mondo dei testi. Rappresenta infatti un tentativo di incidere attraverso l'uso di formule scritte sulla estrapolazione di significati da un testo scritto (l'analogia con la c.d. "interpretazione autentica" è an­cora più evidente). Ma, entrato nel mondo dei testi, il disposi­tivo ne subisce tutto il regime di vita.

     Testi e significati viaggiano su binari perfettamente paral­leli (tant'è che qualsiasi "salto" da uno all'altro - l'atto di interpretazione autentica o la sentenza additiva, per restare ai nostri esempi - sono percepiti come derogatori dell'ordine). I te­sti non riescono mai a "chiudere" la scelta dei significati (neppure quando cercano di disciplinare le metodologie di inter­pretazione), anche se essi sono (o dovrebbero essere) pensati e scritti in previsione della loro futura interpretazione; i signi­ficati non possono mai staccarsi dai testi, così come l'ombra non può staccarsi dalla oggettualità che, in fondo, la genera. Forse è questo il presupposto "materiale" insuperabile del principio di divisione dei poteri.

     Facendosi "testo", il dispositivo della sentenza costituzio­nale inizia il suo viaggio sul binario dei testi. Sul binario pa­rallelo procede la sua elaborazione nel mondo dei significati: essa è un elemento "testuale" nuovo, una nuova disposizione, che come tale va trattata nell'àmbito delle metodologie interpreta­tive. "I giudici sono soggetti soltanto alla legge" è un precetto costituzionale che va letto in questo contesto: da un lato ci dice che non si può influenzare la loro attività ermeneutica, invadendo il loro binario, tramite atti diversi dai testi; dall'altro ci dice che essi non possono negare, invadendo l'altro binario, l'esistenza e l'obbligatorietà dei testi (infatti, l'abrogazione "implicita" incide sull'efficacia delle norme e non delle disposi­zioni, proprio al contrario dell'abrogazione "espressa").

     Se accettiamo l'iscrizione del dispositivo della sentenza co­stituzionale agli atti di potere, ai testi, dobbiamo concludere, quindi, che i giudici di merito non possono contestarne l'obbligatorietà: non possono disapplicarlo (sarebbe come disap­plicare le leggi), non possono impugnarlo (per lo specifico di­vieto dell'art. 137, u.c., Cost.). Ma, contemporaneamente, dob­biamo affermare che la Corte non può in alcun modo impedire che i suoi dispositivi vengano sottoposti a tutti i procedimenti che qui ho chiamato, con una nozione unica, di interpretazione. E' nor­male, ad esempio, che il giudice estenda analogicamente (la norma ricavabile da) il dispositivo della Corte a fattispecie simili, così come non è affatto infrequente che il nuovo testo, immetten­dosi tra gli altri testi, generi nuovi significati di sospetta co­stituzionalità, provocando un intervento ulteriore della Corte[11]. Continuando, nulla impedirebbe al giudice di merito, per esempio, di impugnare la norma conseguente alla sentenza di accoglimento con cui la Corte regola gli effetti temporali, se può sostenere, ragionando in riferimento al caso concreto, l'irragionevolezza del termine a quo da cui la Corte fa nascere la situazione di incosti­tuzionalità.

 

6. Ragionando sempre in linea di principio, se il giudice di me­rito rifiutasse di ottemperare al dispositivo della Corte (negasse cioè di doverlo trattare come "materiale testuale", ai fini dello svolgimento dei suoi compiti interpretativi), la Corte potrebbe sollevare conflitto di attribuzioni. Sorge però una difficoltà che è, ad un tempo, pratica e concettuale.

     La Corte, che sollevasse conflitto contro un giudice che ne rifiuta l'autorità, si troverebbe nell'imbarazzante situazione di un soggetto che contesta il potere proprio di colui dal quale de­riva la sua legittimazione. Sarebbe come se il potere legislativo sollevasse conflitto contro il corpo elettorale (o, sia pure, una sezione di esso), con l'aggravante, tutt'altro che trascurabile proprio per le conseguenze sul piano della legittimazione, di es­sere giudice in causa propria.

     Né si può ritenere che il comportamento contestativo di un singolo giudice non sia capace di per sé di incrinare il "consenso" della comunità su cui la legittimazione della Corte, come ho sostenuto, si regge. Infatti, contro il comportamento di un singolo giudice la Corte non avrebbe neppure interesse (e, a mio avviso, nemmeno la facoltà) di agire, dato che esso è soggetto ad impugnazioni di fronte ad altri giudici: quindi, per quel tanto di "residualità" che mi sembra (e altrove cercherò di dimostrare) caratterizzare l'istituto, verrebbe precluso il conflitto di at­tribuzioni[12]. Il comportamento del singolo giudice diventa perciò rilevante per l'assetto dei poteri solo se e in quanto sia espres­sione di un atteggiamento diffuso nel potere giudiziario. Ma se è un atteggiamento diffuso, allora sì che diviene significativo an­che in termini di deficit di legittimazione della Corte. I due profili che Massimo Luciani distingueva, la Corte e i suoi giudici vs. i giudici e la loro Corte, non sono quindi affatto separabili.

     Morale. La Corte ha la funzione di proiettare gli atti della comunità ermeneutica, cui appartiene, sul piano degli atti di po­tere, liberando l'interprete, costruttore di norme, dal vincolo che lo lega al legislatore, costruttore di disposizioni. In questa sua funzione la Corte opera sul piano dei "testi", delle disposi­zioni. Ma mantiene un doppio legame con la comunità: da un lato gli interpreti sottoporranno la "disposizione" costruita dalla Corte al trattamento tipico cui sono soggetti i "testi"; dall'altro la Corte non può forzare il proprio ruolo imponendo alla comunità testi che non siano giustificabili secondo le regole e i valori della comunità stessa, essendo in gioco la stessa le­gittimazione della Corte, difendibile solo con gli strumenti della persuasione, non con quelli del diritto. Il che dovrebbe rendere avvertita la Corte (e certi suoi giudici in particolare) dell'importanza fondamentale di giustificare i propri dispositivi con una motivazione adeguata.

 

 

                                      Roberto Bin


 



 

                            NOTE

 

[1] Non è necessario chiarire se esista davvero un'entità mitologica che comprenda gli "interpreti" e chi questi siano. Personalmente penso però (e su questo punto tornerò in seguito) che non sia immaginabile, né giustificabile (in termini di legittimazione) una Corte costituzionale, come la conosce la nostra tradizione costituzionalistica, al di fuori del controllo esercitato da una simile "comunità". Chi la componga è un'altra questione: ma qui mi basta identificarla con i giudici di merito.

 

 

[2] H.KELSEN, Reine Rechtslehre, tr.it. di R.Treves, Milano 1967, 109.

 

[3] Basti un esempio: tratto dalla nota sent. 992/1988 (in "Giur.cost." 1988, I, 4673 ss.), che dichiara illegittime le norme impugnate "nella parte in cui non consentivano - con le stesse mo­dalità ivi contemplate ai fini dell'assunzione della spesa a ca­rico del Servizio sanitario nazionale - la eseguibilità delle pre­stazioni di diagnostica specialistica ad alto costo anche presso strutture private non convenzionate, allorché queste ultime fos­sero le uniche detentrici delle relative apparecchiature e gli inerenti accertamenti risultassero indispensabili"

 

[4] Sui numerosi esempi di "delega" ai soggetti dell'applicazione del compito di bilanciare "in concreto" gli interessi (ammessi "in astratto" a concorrere dalla sentenza della Corte), Cfr. R.BIN, Diritti e argomenti, Milano 1992, 90-93, 127-131.

 

[5] Un esempio: sent. 180/1987 (in "Giur.cost." 1987, I, 1301 ss.).

 

 

[6] Un esempio: nella sent. 53/1968 (in "Giur.cost." 1968, 802 ss.), la Corte, afferma il "principio" del diritto di difesa in ogni procedimento di applicazione delle misure di sicurezza, lasciando al legislatore di "regolare nel modo più opportuno l'applicazione pratica del principio", disponendo che, nel frattempo, si appli­chino le norme sulla difesa nella istruzione sommaria: da cui un dispositivo che dichiara l'illegittimità degli art. 636 e 637 c.p.p., "limitatamente alla parte in cui comportano che i provve­dimenti del giudice di sorveglianza siano adottati senza la tutela del diritto di difesa nei sensi di cui in motivazione"

 

 

[7] Nella sent. 136/1985 (in "Giur.cost." 1985, I, 979 ss.).

 

[8] Nella sent. 5/1986 (in "Giur.cost." 1986, I, 41 ss.).

 

 

[9] Nella sent. 87/1986 (in "Giur.cost." 1986, I, 485 ss.).

 

 

[10] H.KELSEN, La garantie jurisdictionnelle de la Costitution (La justice constitutionnelle), tr.it. C.Geraci in La giustizia costi­tuzionale, Milano 1981, 202.

 

[11] Tra i numerosi esempi di pronuncie della Corte aventi ad og­getto casi di sospetta incostituzionalità derivanti da precedenti decisioni di accoglimento, Cfr.: sent. 173/1984, in "Giur.cost." 1984, I, 1129 ss.; sent. 237/1984, in "Giur.cost." 1984, I, 1690 ss.; sent. 63/1987, in "Giur.cost." 1987, I, 495 ss.; sent. 103/1982, in "Giur.cost." 1982, I, 1013 ss. (il "testo originario" dell'art. 186 c.p.m.p., come "risulta ora modificato per effetto della sentenza n. 26 del 1979" "trasmoda di certo in irragionevo­lezza e impone pertanto alla Corte di intervenire al fine di eli­minare una situazione normativa, il cui perdurare non è costitu­zionalmente consentito"); sent. 332/1988, in "Giur.cost." 1988, I, 1385 ss.; sent. 112/1968, in "Giur.cost." 1968, 1751 ss.; sent. 102/1982, in "Giur.cost." 1982, I, 1002 ss.; sent. 89/1979, in "Giur.cost." 1979, I, 664 ss.; sent. 469/1990, in "Giur.cost." 1990, I, 2807 ss. (che dichiara illegittima la norma che vieta di processare i disertori in contumacia, per il "perverso effetto" provocato dalla sent. 503/1989 che ha limitato il ricorso all'arresto in flagranza); sent. 26/1969, in "Giur.cost." 1969, 359 ss.; sent. 215/1983, in "Giur.cost." 1983, I, 1291 ss. ("palese irrazionalità" conseguente alla sent. 131/1979).

 

 

[12] Come è ovvio, è difficile prospettare una preclusione all'esercizio di facoltà della Corte del cui rispetto la Corte do­vrebbe essere, una volta di più, il controllore. Ma è altrettanto evidente che un comportamento derogatorio tenuto dalla Corte avvi­terebbe ulteriormente la spirale della delegittimazione. D'altra parte è inevitabile che, trattando dell'organo di chiusura del si­stema, i "ricorsi all'infinito" non si contino più.