Un ostacolo che la Corte non può aggirare

 

Roberto Bin

 

1.     Per una lettura attenta della decisione della Corte di giustizia

 

La vulgata giornalistica della decisione della Corte di giustizia ne travisa completamente il senso. Non è vero che la sentenza del 3 maggio 2005 abbia respinto la questione interpretativa sollevata dai giudici italiani perché viene “costituzionalizzato” il principio del favor rei. Il ragionamento della Corte è ben diverso, e può essere così ricostruito:

a) Nella sezione della motivazione dedicata al “principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite”, la Corte riconosce – ed era difficile non farlo[1] – che “il principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite fa parte delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri” (punto 68); e perciò chiude la questione affermando (punto 69) che tale principio deve essere considerato “parte integrante dei principi generali del diritto comunitario che il giudice nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale adottato per attuare l’ordinamento comunitario e, nella fattispecie, in particolare, le direttive sul diritto societari”. Va osservato – e al giurista il fatto non può sfuggire – che si parla di “principi” (e non di regole) e, in particolare, di un principio che è “parte integrante” del sistema dei “principi generali” dell’ordinamento comunitario. I principi – come si sa – non si applicano secondo la logica binaria tutto/niente (che è tipica delle regole, secondo la terminologia in voga), ma sono destinati a continuo bilanciamento reciproco, da effettuarsi in relazione al caso concreto, applicando criteri che devono consentire un assetto equilibrato dei principi (e degli interessi sottostanti) di volta in volta in conflitto, in modo che nessuna gerarchia possa essere tra loro definita in astratto, e che in nessun caso la prevalenza di un principio possa essere affermata senza salvaguardare il “nucleo essenziale” dell’altro principio, quello occasionalmente soccombente.

 

b) Dell’esigenza di una lettura “bilanciata” dei principi generali dell’ordinamento comunitario la Corte di giustizia si mostra perfettamente avvertita. Nel punto successivo della motivazione (che inaugura la sezione dedicata al quesito cruciale “Sulla possibilità di invocare la prima direttiva sul diritto societario”) la Corte enuncia il tema del bilanciamento: “Si pone tuttavia la questione se il principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite si applichi qualora questa sia contraria ad altre norme di diritto comunitario” (punto 70). Si tratterebbe infatti di valutare come si bilanci il principio del favor rei con il principio di preminenza del diritto comunitario. Il problema di un bilanciamento dunque c’è, ma la Corte di giustizia ritiene che non sia necessario affrontarlo in questa sede (punto 71). Infatti la decisione deve essere assunta sulla base di un ratio del tutto diversa, che si riferisce al differente tema degli effetti giuridici delle direttive comunitarie.

 

c) L’affermazione del principio del favor rei quale principio generale di diritto comunitario e della sua “legittimazione” a “concorrere” con altri principi, quale quello di preminenza del diritto comunitario, costituisce dunque, a rigore, un obiter dictum: non influenza in alcun modo la decisione, anche perché lascia inaffrontato il compito che avrebbe dovuto essere svolto dalla Corte per costruire la premessa della decisione: definire la “regola di prevalenza” (secondo la nota terminologia di Robert Alexy[2]), e cioè la massima che esprime il bilanciamento tra i due principi concorrenti. La ratio decidendi che regge la conclusione è invece imperniata esclusivamente sulla “natura stessa di qualsiasi direttiva” (punto 77) e sulla teoria degli “effetti diretti” che le direttive possono talvolta esprimere – teoria che, come è ben noto, prende le mosse dalle esigenze complementari di garantire la tutela dei diritti e degli interessi individuali fondati sul diritto comunitario e, sull’altro versante, di impedire che (l’organo, anche giudiziario, di) uno Stato membro si faccia forte, a danno dei privati, dell’inadempimento degli obblighi comunitari da parte dello Stato stesso. La particolarità del caso affrontato (e di altri casi in parte analoghi sollevati in via pregiudiziale dai giudici italiani) ha infatti provocato un notevole offuscamento della distinzione di ruolo. Il ruolo che (hegeliamente) i giudici svolgono come “capillari” osmotici dell’apparato statale innervati nella società civile – lo “sportello” dello Stato a cui i cittadini si rivolgono per invocare tutela dei propri diritti – ha fatto sì che i giudici remittenti si rivolgano alla Corte di giustizia contro ciò che ha disposto un altro organo dello Stato, il potere legislativo, in nome della difesa di interessi generali e individuali, ma a danno dei privati sottoposti a giudizio penale. Ma gli “effetti diretti” possono operare “verticalmente”, nei rapporti tra Stato e cittadini, solo in senso ascensionale (il privato che agisce contro lo Stato a tutela dei propri interessi), non anche in senso discendente, per veicolare la pretesa punitiva o altri obblighi imposti dallo Stato nei confronti dei cittadini. La confusione di ruoli è grande – si sa – nel nostro paese, ma bene ha fatto la Corte di giustizia a fare un po’ di chiarezza.

 

2.     Dubbi irrisolti, dubbi rafforzati, e dilemma dei giudici italiani

 

Naturalmente ciò significa che i dubbi sollevati dai giudici italiani restano irrisolti: anzi vengono ulteriormente aggravati dalla decisione della Corte di giustizia.

La Corte di giustizia, infatti, non dissolve alcun dubbio circa la “compatibilità comunitaria” della normativa interna sul falso in bilancio. Anzi, gli unici profili che affronta, sia pure senza approfondirli, sembrano rafforzare le perplessità manifestate dai giudici: ad essi infatti la Corte fornisce un importante elemento interpretativo delle direttive societarie, laddove conferma che il regime sanzionatorio previsto per la mancata pubblicazione dei bilanci va esteso anche alla pubblicazione di bilanci falsi. Inoltre la Corte di giustizia riafferma ciò che ha sempre sostenuto, ossia che spetta ai giudici nazionali controllare che le norme interne soddisfino “l’obbligo del diritto comunitario relativo all’adeguatezza delle sanzioni”, e che essi, qualora le sanzioni non risultino adeguate, sono “tenuti a disapplicare, di loro iniziativa” le norme interne. Ciò che il giudice non può fare, è disapplicare la norma interna e procedere di conseguenza nel senso di aggravare la responsabilità penale degli imputati, operando sulla base dei supposti effetti diretti di norme ricavate da una direttiva.

La situazione in cui si trova il giudice nazionale a seguito di questa sentenza è dilemmatica. Se egli riassumesse il giudizio e applicasse le regole introdotte dal decreto legislativo sul falso in bilancio, avrebbe ormai la certezza, più che il dubbio, di compiere un’infrazione al diritto comunitario; ma, d’altra parte, non potrebbe neppure ignorare ciò che la Corte di giustizia ha statuito, e disapplicare le nuove norme applicando in loro vece la vecchia disciplina sanzionatorio: perché, in assenza di una norma comunitaria con effetti diretti, mai potrebbe giungere a violare il vincolo che lo lega alla legge in forza dell’art. 101, co. 2.

È una situazione che non ha che una sola via d’uscita: sospendere nuovamente il giudizio, ed investire della questione la Corte costituzionale. È la strada che la Corte costituzionale ha indicato sin dalla sent. 170/1984: in via preliminare il giudice deve risolvere ogni problema interpretativo rivolgendosi alla Corte di giustizia; se questa non gli fornisce gli argomenti per accreditare l’esistenza di una norma comunitaria munita di effetto diretto, consentendogli così di chiudere il giudizio con la “non applicazione” della norma interna contrastante con l’ordinamento comunitario, questa deve essere impugnata di fronte alla Corte costituzionale per violazione indiretta dell’art. 11 cost.

La via è semplice da imboccare, ma può portare lontano? La Corte costituzionale – si sa – si è sempre dimostrata riluttante davanti a richieste di dichiarare illegittime norme penali di favore: da un lato il doveroso self restraint nei confronti delle scelte “discrezionali” del legislatore in materia di politica criminale; dall’altro il non meno doveroso rispetto del principio di legalità delle pene, che contiene, tra le altre implicazioni, anche il principio per cui nessuno può essere punito (o punito più gravemente) per un comportamento che ormai non è più considerato meritevole di pena (o di una pena più grave). Ma si sa pure che né il self restraint in materia penale, né il principio del favor rei sono stati argini invalicabili per la Corte: altri interventi in questo dibattito hanno illustrato la casistica, e non mi soffermo. La problematica penale e gli interventi legislativi di favore per il reo non sono quindi una political question inaffrontabile, bensì piuttosto una zona che, per la particolare incisione che in essa può essere operata sulla sfera più gelosa dei diritti individuali, richiede uno strict scrutiny. La particolare circostanza per cui l’imputato è proprio il Presidente del Consiglio dei ministri che ha deliberato il decreto legislativo che, casualmente, lo favorisce nel giudizio penale (nonché il Capo del Governo che è intervenuto nel giudizio davanti alla Corte di giustizia e interverrà probabilmente anche nel giudizio davanti alla Corte costituzionale, sempre a difesa della legge) non mette certamente la Corte costituzionale nella condizione ottimale per farlo: tuttavia la Corte questa volta non potrà esimersi dall’affrontare l’intricata questione. Ecco perché.

 

3.     La Corte costituzionale ha vie di fuga?

 

Un antico e glorioso Maestro affermava che nel giudizio vi sono tre interessi: quelli contrapposti delle parti, e l’interesse del giudice a non decidere, a liberarsi il prima possibile della causa. È ovvio che la Corte potrebbe assecondare questo suo – umanamente comprensibile – desiderio rispolverando il suo consueto self restraint di fronte alle norme penali di favore. La Corte potrebbe essere tentata di seguire una soluzione di bassissimo profilo, limitarsi a ribadire, magari con un’ordinanza di manifesta inammissibilità, ciò che ha già ribadito proprio in relazione al decreto legislativo sul falso in bilancio, escludendo “che la Corte costituzionale possa introdurre in via additiva nuovi reati o che l’effetto di una sua sentenza possa essere quello di ampliare o aggravare figure di reato già esistenti, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore” (sent. 161/2004). Anzi, la vulgata giornalistica della decisione della Corte di giustizia potrebbe indurla a rafforzare i propri precedenti, visto che ormai il principio del favor rei è stato assunto nell’empireo costituzionale dell’Unione europea. Ma per fortuna la Corte è un giudice, non un reporter. Non può sfuggirle il senso della sentenza della Corte di giustizia e, in particolare, come essa trasferisca al sistema giudiziario nazionale due compiti assai delicati. L’uno è di merito, e attiene alle questioni sollevate dai giudici di rinvio: valutare l’adeguatezza del regime sanzionatorio predisposto dal legislatore italiano; ma ancor prima è necessario affrontare una questione, un grappolo di questioni che coinvolgono i rapporti tra ordinamento interno e ordinamento comunitario.

La Corte di giustizia ha lasciato in sospeso il nodo del bilanciamento tra il principio di supremazia del diritto comunitario e il principio del favor rei. La Corte costituzionale non può scansarlo: entrambi sono principi che essa ha accreditato come principi costituzionali. L’unica strada che potrebbe praticare per evitare di occuparsene sarebbe di riconoscersi come “giurisdizione nazionale” di ultima istanza, ai sensi dell’art. 234 Tr. CE., e rimettere la palla nel campo della Corte di giustizia. Così però abbandonerebbe la policy a cui sinora si è attenuta e, oltretutto, lo farebbe in relazione ad una questione che riguarda proprio l’assetto dei principi costituzionali. Un esito quasi paradossale, dato che l’atteggiamento che la Corte costituzionale ha mantenuto sinora è motivato dall’esigenza di difendere, nell’ambito della visione dualistica degli ordinamenti, la “apicalità” della Corte stessa, come vertice di un ordinamento costituzionale e sovrano: e qui proprio di principi che stanno nello strato sommitale dell’ordinamento si tratta. Se la Corte costituzionale rinviasse alla Corte di giustizia la decisione sul bilanciamento tra questi due principi, la sentenza della Corte di giustizia fisserebbe una regola di rango sovrordinato alla stessa costituzione italiana; la Corte costituzionale si troverebbe a dover “ottemperare”!. Per fuggire al problema contingente si imboccherebbe una via che porterebbe ad un “salto” nei rapporti tra gli ordinamenti, una via senza ritorno.

Dovendo dunque affrontare questo nodo, la Corte non potrebbe limitarsi ad affermare l’assoluta prevalenza del principio del favor rei senza tenere in alcun conto l’esigenza di preservare la garanzia di effettività e di preminenza del diritto comunitario: è la sua stessa giurisprudenza, oltre a quella della Corte di giustizia, ad inchiodarla, dato che a quella garanzia la Corte costituzionale ha fornito il supporto costituzionale dell’art. 11. Da più parti sono stati ricordati, nel corso di questo Seminario, i casi in cui il principio del favor rei è stato derogato o “bilanciato” dalla Corte costituzionale con altre esigenze costituzionalmente rilevanti[3]. Altri esempi potrebbero essere immaginati: che direbbe la Corte costituzionale se si procedesse ad un’amnistia con decreto-legge, poi regolarmente convertito in plateale violazione delle formalità (un po’ folli) stabilite dall’art. 79 cost.? e se il legislatore, nella sua discrezionalità politica, stabilisse un salvacondotto penale a favore del sig. Tale? E se il legislatore, mosso da nobile frenesia di semplificazione legislativa, nel riscrivere codice e legislazione penale dimenticasse di prevedere una fattispecie incriminatrice, poniamo, per il reato di omicidio o di stupro?  È chiaro che il principio di favor rei perderebbe qualsiasi parvenza di intangibilità.

Potrebbe invece mantenerla sul fronte dei rapporti comunitari? Se esso venisse affermato in tutta la sua pienezza e inderogabilità, si produrrebbero situazioni del tutto inaccettabili per l’ordinamento comunitario. Ogni Stato, infatti, potrebbe liberamente scegliere, variando magari temporaneamente il regime sanzionatorio, di mandare i propri cittadini, colpevoli di aver gravemente violato le regole comunitarie, indenni da ogni responsabilità penale. Il risultato sarebbe del tutto intollerabile, e certo la Corte di giustizia non potrebbe rifiutare di occuparsene, lasciando la garanzia dell’effettività dell’ordinamento comunitario alla sola probabilità che la Commissione attivi la procedura d’infrazione.

 

4. …e se le ha, si possono sbarrare?

 

Se i giudici impugnano o impugneranno il decreto legislativo davanti alla Corte costituzionale, la ragione che li sospinge non è un intento persecutorio nei confronti degli imputati, come talvolta si vuol far credere. Come la Corte di giustizia ricorda, i giudici nazionali sono “tenuti” a garantire la preminenza del diritto comunitario sul diritto interno. Perché fosse chiaro che cosa si intende per “tenuti”, la sent. Köbler (C-224/01) ha stabilito che “in considerazione del ruolo essenziale svolto dal potere giudiziario nella tutela dei diritti che ai singoli derivano dalle norme comunitarie, la piena efficacia di queste ultime verrebbe rimessa in discussione e la tutela dei diritti che esse riconoscono sarebbe affievolita se fosse escluso che i singoli possano, a talune condizioni, ottenere un risarcimento allorché i loro diritti sono lesi da una violazione del diritto comunitario imputabile a una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado di uno Stato membro”. Se la Corte costituzionale scegliesse di liberarsi di una questione tanto scomoda con una pronuncia di inammissibilità, non esimerebbe i giudici dalla responsabilità di assicurare il rispetto del diritto comunitario; semplicemente li lascerebbe soli di fronte al compito di valutare se la normativa interna è conforme al principio della adeguatezza ed effettività della sanzione. Soli e privi di strumentazione, poiché il secondo e il terzo comma dell’art. 2 cod. pen., che incarnano il principio costituzionale del favor rei, impedirebbe loro qualsiasi via d’uscita, se non appunto l’acritica applicazione di una norma che essi hanno dimostrato di considerare incompatibile con la normativa comunitaria.

Appare perciò evidente che sono proprio le disposizioni dell’art. 2 cod. pen. l’ostacolo che deve essere impugnato davanti alla Corte: è la strada seguita in occasione della sent. 51/1985  Ma come formulare l’impugnazione? Vi possono essere ipotesi diverse, che meritano di essere approfondite.

L’ipotesi “naturale” è che sia lo stesso giudice che impugna il decreto legislativo ad impugnare anche la disposizione del codice. Una quaestio non semplice da formularsi, però. Occorrerebbe un’impugnazione, per così dire, “microchirurgica”, che delimiti attentamente che cosa rimuovere dalla disposizione stessa e scelga con oculatezza il parametro costituzionale da richiamare. Si potrebbe immaginare che venga impugnato il secondo o il terzo comma (secondo la circostanza) per violazione del combinato disposto degli art. 11 e 101.2 cost., nella parte in cui non consente al giudice - in presenza di una norma penale che, modificando in senso favorevole al reo il regime sanzionatorio previsto da precedenti leggi di attuazione di direttive comunitarie, violi il principio comunitario della adeguatezza ed effettività della sanzione - di applicare ai fatti commessi prima della legge “nuova” la disciplina allora in vigore[4].

Ma impugnare assieme il decreto legislativo e (in via subordinata) la disposizione del codice penale potrebbe creare qualche difficoltà nella motivazione della rilevanza. Allora si potrebbero ipotizzare due strade ulteriori: che l’ordinanza, dando per scontata la giurisprudenza costituzionale sull’inammissibilità delle questioni di legittimità che hanno come oggetto le norme di favore, aggredisca direttamente e unicamente la disposizione del codice; oppure che si impugni il solo decreto legislativo, chiedendo però alla Corte costituzionale di sollevare davanti alla Corte la quaestio relativa all’art. 2. Ma è chiaro che in questo modo ci si affida “mani legate” alla volontà della Corte di affrontare il merito del problema.

Vi potrebbe essere anche un’ultima ipotesi, che non fa perno sui giudici: che la Commissione intervenga nel giudizio davanti alla Corte costituzionale, per difendere gli interessi comunitari – interessi che non avrebbero altra tutela processuale, nell’ordinamento interno, nel caso in cui la Corte costituzionale rifiutasse sia si adire la Corte di giustizia, negando la sua natura di “giurisdizione nazionale”, sia di “bilanciare” il principio del favor rei con il principio di preminenza del diritto comunitario.

Non mi sembra che vi possano essere motivi per cui la richiesta della Commissione di intervenire possa essere respinta dalla Corte, data anche la relativa elasticità dei criteri che essa ha elaborato. Comunque, la memoria che la Commissione presenterebbe non passerebbe certamente inosservata. Sarebbe un fatto politico di grande rilievo: di politica istituzionale, intendo, oltre che di politica “mondana”. La Commissione, infatti, interverrebbe anzitutto per la difesa di interessi istituzionali della Comunità, più che direttamente nel merito delle questioni societarie (per le quali, del resto, pur è intervenuta davanti alla Corte di giustizia): il fatto stesso del suo intervento davanti ad una corte costituzionale nazionale assumerebbe il significato di un’importante innovazione istituzione. Purtroppo sarebbe certo anche un gesto che potrebbe assumere un significato politico ben più quotidiano, per la particolare figura di uno degli imputati.

Ecco riemergere il solito problema delle peculiarità del Bel Paese, “wo die Citronen blühn”. Ancora una volta spetterà alla Corte costituzionale salvaguardarne la dignità.

 

 



[1] La stessa Corte costituzionale italiana, del resto, aveva affermato nella nota sent. 51/1985 che “il principio in argomento si pone come superiore principio di civiltà (della stessa civiltà nella quale la nostra Costituzione si inserisce)”.

[2] Teorie der Grundrechte, Baden-Baden 1985, 75 ss.

[3] Di particolare pregio argomentativo sono inoltre le considerazioni sviluppate nell’ord. 2 febbraio 2005 del Tribunale di Terni a proposito del “casi Niselli”. In effetti l’esempio in essa riportato delle leggi regionali in materia penale, che mai hanno dato luogo all’applicazione del principio del favor rei, appare di particolare rilievo, poiché attiene ad un problema di competenza delle fonti appartenenti ad ordinamenti diversi che in qualche modo è omologo a quello che sorge nei rapporti tra ordinamento statale e ordinamento comunitario; salvo che per un profilo non irrilevante, ossia che la “materia” penale, sottratta alle regioni, non è affatto “assorbita” dall’ordinamento comunitario. Per sostenere l’analogia tra le due fattispecie bisognerebbe affermare l’incompetenza del legislatore statale a riformare in peius (da punto di vista delle garanzie di effettività dell’attuazione delle norme comunitarie) la propria disciplina di attuazione. La regola che si dovrebbe trarre (e che avrebbe la sua base giuridica nel principio di leale cooperazione posto dall’art. 10.2 Tr. CE) è che qualsiasi norma interna che allontani la disciplina nazionale dagli obiettivi fissati dalle norme comunitarie deve essere privata di ogni effetto, compreso quello abrogativo: ma così si produrrebbe una norma ad effetto diretto che imporrebbe al giudice di applicare la norma nazionale più conforme (o meno difforme) dalle indicazioni contenute negli atti normativi comunitari. Questa ipotesi – forse leggibile in filigrana nelle conclusioni dell’Avvocato generale Kokott - non è stata minimamente considerata dalla Corte di giustizia.

[4] Sarebbe un classico caso di impugnazione diretta a rimuovere una fattispecie legislativa che “indurisce” eccessivamente l’assetto degli interessi in gioco, impedendo al giudice di operare un bilanciamento in concreto tra essi: cfr. R. BIN, Diritti e argomenti, Milano 1992, 120 ss.