Diritti e fraintendimenti

 

Roberto Bin

 

1. Nel discorso sui “diritti” è usuale procedere per classificazioni. Talvolta sono impiegate con intenti che, almeno prima facie, appaiono di pura scansione temporale delle fasi storiche in cui certe classi di “diritti” sono state oggetto di rivendicazione o di riconoscimento. A ben vedere, quando si parla, per esempio, di diritti di una o dell’altra “generazione”, non sono i “diritti” ad essere classificati, ma l’evento storico della comparsa della relativa rivendicazione. Tutt’altro affare è invece quando sono proprio i “diritti” ad essere classificati sulla base dei loro presunti caratteri strutturali o delle particolarità di comportamento. L’obiettivo del discorso si fa, in questi casi, marcatamente prescrittivo e mira, più o meno consapevolmente, ad accreditare gerarchie e precedenze tra i “diritti”.

Le considerazioni che seguono intendono contestare non già questa o quella classificazione in uso, ma la legittimità stessa di ogni classificazione dei “diritti”. Esse prendono tutte le mosse da due premesse, intimamente intrecciate, che mi appaiono del tutto insostenibili: che i diritti siano “cose” a proposito delle quali sia lecito sviluppare un discorso “astratto”; che i diritti, proprio perché “cose”, presentino caratteri loro propri così specifici e costanti da poter essere oggetto di classificazioni.

Devo anzitutto chiarire cosa intendo per ‘discorso astratto’. Tale mi sembra ogni discorso sui “diritti” che non tenga conto delle circostanze di fatto e di diritto, cioè delle coordinate tipiche del “caso” giuridico. Non sto semplicemente sostenendo la posizione tradizionale di chi nega che esista un diritto “soggettivo” al di fuori di ciò che è riconosciuto dal diritto “oggettivo”, né intendo rassegnarmi all’ormai non meno tradizionale rights skepticism di chi rinuncia a riconoscere ai “diritti” una consistenza diversa dalla decisione casuale e poco prevedibile di un giudice. Voglio semplicemente contestare l’utilità di un ragionamento che è “astratto” perché condotto per etichette e figurini, in cui l’assolutezza dei “valori” etici che si incarnano nei “diritti” mette in totale ombra la complessità della tessitura giuridica di questi ultimi. Niente da dire, è ovvio, sulla legittimità di considerare i “valori” sotto il profilo dell’etica, ma i “diritti”, considerati dal punto prospettico del diritto, sono un’altra cosa. Non è la questione terminologica a preoccuparmi, ovviamente, ma la nefasta conseguenza della confusione tra i due àmbiti: nefasta perché ogni volta che si compie il tragitto dal livello dei “diritti” a quello dei “valori”, si ritorna con qualcosa di più, cioè con un bel carico lato sensu normativo. Le precedenze e le gerarchie che si possono accreditare ragionando in astratto (sul piano dell’etica) attorno ai “valori” vengono poi riflesse sul piano (giuridico) dei “diritti”, compromettendo, oltretutto, la stessa comprensione della dimensione giuridica dei “diritti” stessi.

 

2. Le vicende delle classificazioni dei diritti sono dunque emblematiche di questa confusione di piani. Per mostrarlo partirò da quella che senz’altro può considerarsi la distinzione più tradizionale e consolidata, la meno discussa insomma: la distinzione tra libertà negative e diritti positivi. Dopo la celebre contrapposizione tracciata da Constant tra le libertà degli antichi e le libertà dei moderni (che però oggi probabilmente nessuno considererebbe più come uno strumento utile di analisi), la distinzione tra libertà negative e diritti positivi è senz’altro quella che ha lasciato tracce più evidenti nella nostra cultura. Su di essa si impernia la contrapposizione, non ancora superata, tra la visione liberale dello Stato e quella sociale, cioè uno dei temi che da ben più di mezzo secolo dominano l’ordine del giorno del dibattito pubblico.

Non mi soffermo a descrivere i termini di questa distinzione, che sono sin troppo noti. Mi preme invece sottoporre ad analisi critica le due conseguenze prescrittive che da essa vengono regolarmente tratte: la prima riguarda la precedenza logica che è generalmente assegnata alle libertà negative rispetto ai diritti sociali; la seconda riguarda la “naturale” gradualità dei diritti positivi, in quanto implicano “prestazioni” e quindi costi per l’erario pubblico - di contro alla “naturale” incomprimibilità delle libertà negative, che comportano solo un atteggiamento di astensione dello Stato. Benché stiano su piani apparentemente lontani, anche queste due conseguenze sono invece strettamente intrecciate: ed entrambe arbitrarie.

Che le libertà negative siano antecedenti (in senso logico, non solo in senso storico, in quanto eventi) alle libertà positive è comunemente professato. Chi dubiterebbe, per esempio, che la libertà fisica della persona venga prima del diritto all’istruzione, ne segni quasi una condizione di pensabilità; o che il diritto alla vita sia una condizione preliminare rispetto al diritto alla salute, inteso come diritto alle prestazioni sanitarie? È proprio questo che chiamo ‘ragionare in astratto’, per “figurini”. Le due classi di diritti si affrontano schierando in campo i rispettivi campioni a singolar tenzone: l’errore sta semplicemente nell’aver concepito le due classi di diritti, cioè nella classificazione.

Parlare in “astratto” della libertà personale, come in questo caso, ricade nel peccato, denunciato in premessa, di entificazione del diritto, nel trasformarlo in una “cosa”. Infatti l’etichetta ‘libertà personale’ si applica ad una varietà di fenomeni piuttosto differenziata. Non è solo l’arresto (arbitrario), la coercizione fisica, la perquisizione invasiva della persona; rientrano infatti nel nostro concetto di habeas corpus: una variata gamma di ispezioni e perquisizioni, non solo sulla persona ma anche sulle cose che la persona ha con sé; una ricca tipologia di obblighi cui la persona è soggetta (per esempio, presentarsi alla stazione di polizia ogni volta che la propria squadra di calcio scende in campo, come è previsto dalla legge contro la violenza negli stadi); forme di costrizione morale che comportino assoggettamento della persona alla volontà altrui ecc. La Corte costituzionale italiana ha dovuto individuare elementi utili per una definizione generale del “diritto”, e li ha riconosciuti nel concetto di degradazione e di mortificazione della dignità e del prestigio della persona: sulla base di questa definizione ha poi iniziato un’opera di suddivisione tra situazioni ricadenti nella protezione della libertà personale e situazioni escluse da essa. Alla fine il risultato può apparire sorprendente: interventi sulla “persona” intesa in senso fisico, come l’assunzione delle impronte digitali, possono risultare estranei alla tutela dell’habeas corpus, perché non degradanti, mentre un ammonimento rivolto dall’autorità all’individuo può risultare in essa compreso.

Il fatto è che la definizione del “diritto” non è come una pentola, rispetto alla quale un determinato fenomeno sta dentro o fuori, tertium non datur. Si comporta piuttosto come un ombrello durante un forte acquazzone: vi è un punto in cui la protezione è massima, e poi, via via che ci si allontana da esso, la tenuta diviene sempre meno efficiente; è persino difficile dire in che punto si è totalmente fuori dall’ombrello, anche perché in buona parte dipende dal vento.

Ma queste, si potrebbe ribattere, sono scelte interpretative della Corte costituzionale italiana, che non impediscono affatto di considerare la libertà personale, o qualsiasi altro diritto, nel loro nucleo forte e più tipico. Però non è così: gli stessi problemi interpretativi sono stati affrontati, per questa libertà come per qualsiasi altro diritto, dalla Corte suprema americana come dal Tribunale costituzionale tedesco o dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il che fa pensare che siano problemi strutturali, per chi deve affrontare la tematica dei diritti.

Il problema strutturale sta forse proprio nella definizione dei contenuti dei diritti, nella loro particolare struttura ad ombrello: sono delle non-definizioni, se ‘definizione’ l' assumiamo nel suo significato etimologico. Verrebbe da dire che non c’è nulla di definitivo in queste definizioni.

 

3. Prendiamo il caso della libertà di espressione, l’altro grande pilastro del sistema dei diritti (ma, ovviamente, la libertà personale viene prima della libertà di espressione!). La libertà di esprimere liberamente il proprio pensiero sembra difficilmente condizionata da problemi definitori. Ma non è affatto così, anzi. È già un grosso problema distinguere il pensiero da altro: una bestemmia, per esempio, non è certo considerata un pensiero (anche se spesso limpide forme di pensiero sono state denunciate come bestemmie!), né lo è l’esclamazione oltraggiosa; è molto dubbio se la pubblicità commerciale sia “pensiero” o meno; vi è poi il singolare fenomeno per cui, per certe circostanze di tempo luogo e modalità, un determinato discorso può perdere il suo significato di “pensiero” e divenire invece un principio di “azione”. Questi problemi definitori, che hanno tormentato i giudici di tutti i sistemi costituzionali del mondo, non sono ovviamente problemi che concernono la definizione del termine ‘pensiero’, ma la definizione della tutela giuridica connessa ad un certo bene, un certo interesse. La definizione del contenuto di questo interesse (nel caso, di ‘pensiero’) non è mai disgiunta dalla definizione della tutela: mentre la definizione di un termine è sempre sviluppabile nella logica si-no (“l’insulto non è mai ‘pensiero’”), la tutela dell’interesse che è designato con quel termine sfugge da quella logica, è infatti graduabile. È graduabile sulla base della minor o maggior distanza dalla zona di massima protezione dell’ombrello.

Un esempio evidente di questa modulazione della garanzia del diritto la si ha con la libertà di domicilio. Nella nostra costituzione essa è concepita come protezione di un bene che sta sùbito accanto alla libertà personale, in rapporto di continuità con la tutela di quest’ultima. Quando l’oggetto incomincia ad essere fisicamente troppo lontano dalla persona, la sua tutela si trasferisce, senza soluzione di continuità, dalla libertà personale a quella domiciliare. Ma i nuclei della rispettiva tutela sono lontani: la libertà personale ha come suo nucleo forte la protezione della persona fisica da atti di coercizione fisica che ne impediscano il movimento (la libertà di circolazione è dunque la continuazione della libertà personale in questa direzione) nonché da atti di intrusione che ne offendano la sfera intima; la libertà di domicilio bada, nella sua essenza originaria, alla protezione della sfera intima della persona nell’àmbito spaziale della sua proiezione (sto procedendo per definizioni del tutto comuni nei manuali così come in giurisprudenza). Questo àmbito si estende dalla propria abitazione al luogo di lavoro, alla stanza d’albergo, alla cabina della barca, alla roulotte alla tenda, allo scaffale del circolo sportivo, sino al bagagliaio dell’autovettura (così almeno ha affermato la nostra Corte costituzionale). Ma in tutto questo tragitto è rimasta sempre eguale, della stessa intensità, o ha perso qualcosa?

La stessa costituzione italiana si è posta questo problema. Infatti l’art. 14.3 ammette che “sconti” sull’intensità della tutela della libertà “negativa” di domicilio possano essere previsti dalla legge per le forme meno invasive di intrusione (“accertamenti” e “ispezioni”, con esclusione dunque delle “perquisizioni” e dei “sequestri”, elencati nel comma precedente) e solo se esse sono finalizzate al soddisfacimento di interessi generali appositamente enumerati, di cui oltretutto alcuni (i “fini economici e fiscali”) non sono usualmente giudicati (in astratto) comparabili con i diritti fondamentali negativi. Le leggi fiscali, inoltre, attuano la previsione costituzionale introducendo un’ulteriore modulazione della tutela della libertà ratione loci, ammettendo che la guardia di finanza esegua i suoi accertamenti in forma più semplice se si tratta del luogo in cui si svolgono le attività economiche e in forma più “garantita” se si tratta invece dell’abitazione privata[1].

Come si vede già da questi pochi esempi, se si guarda ai “diritti” non ragionando sul piano astratto dei figurini, ma seguendo alcuni fili della complessa tessitura giuridica in cui essi sono organizzati, diviene impossibile insistere nel tentativo di costruire gerarchie e precedenze logiche. È vero che ogni regola giuridica (sia essa costituzionale, legislativa oppure elaborata dalla giurisprudenza) fissa un ordine di precedenze: ma è un ordine relativo a specifiche circostanze di fatto (la fattispecie, appunto) ed è condizionato dalla clausola rebus sic stantibus[2]. Si può forse pensare di ricostruire, dall’insieme di tutte le regole di preferenza, un compendio generale, un sistema delle precedenze tra i diritti? No: la ragione di una risposta negativa così perentoria non è la difficoltà “di calcolo”, la difficoltà di tracciare un sistema che tenga conto di tutte le variabili. L’equazione è impossibile perché la prima incognita è il numero stesso delle variabili! Infatti il vero ostacolo insormontabile è che le regole di preferenza non sono fissate una volta per sempre: la clausola rebus sic stantibus, di cui sono corredate, rende mobile il punto di equilibrio tra gli interessi che la regola ha faticosamente fissato, e che ogni variazione delle condizioni fattuali può spostare. Come il vento con l’ombrello.

Ciò che si può elaborare è tutt’al più un sistema di criteri sulla cui base giudicare se un determinato assetto degli interessi è razionalmente giustificabile o meno. Bisogna elaborarlo, perché serve una metodologia per la giustificazione della regola  di prevalenza: serve soprattutto quando la regola sia posta dai giudici. Ma serve proprio perché non esistono gerarchie preconfezionate.

 

4. Sono finito così con il parlare del bilanciamento degli interessi, esito necessario, d’altra parte, di ogni discorso sui “diritti” che voglia discostarsi dal ragionamento per “figurini”[3]. Ma il bilanciamento ci riporta subito alle classificazioni dei diritti, ed in primo luogo alla contrapposizione tra libertà “negative” e diritti “positivi”. Una delle caratteristiche differenziali essenziali su cui si baserebbe questa distinzione, infatti, è di regola traslata sul terreno del bilanciamento, viene cioè tradotta in un canone che vorrebbe segnare una differenza fondamentale anche per ciò che riguarda i modi con cui le due categorie di “diritti” devono (perché il discorso si fa immancabilmente prescrittivo) essere trattate nel giudizio di bilanciamento.

Questa supposta caratteristica differenziale è il costo. È quasi un assioma che le libertà “negative” non “costino”, perché si esprimono essenzialmente in una richiesta di astensione dello Stato e delle pubbliche autorità: al contrario, i diritti “positivi” costano sempre, perché si esprimono in una richiesta di prestazioni pubbliche. Siccome il “costo” si riferisce all’erario pubblico, e questo è alimentato dal sistema fiscale, ecco che le due categorie di “diritti” si accendono nuovamente di colori politici sfavillanti. Le due visioni del mondo, quella liberale, negativa e minimalista – poche tasse e poca spesa – e quella sociale, solidaristica e interventista – ridistribuzione della ricchezza attraverso tasse progressive e servizi sociali – tornano ad animare la nostra contrapposizione.

L’assioma ha poi due corollari.

Il primo è che le libertà “negative” hanno una valenza “erga omnes”, ossia sono dotate di un caratteristico “effetto orizzontale” (Drittwirkung) che i diritti “positivi” non hanno. La nostra pretesa di astensione da ogni intromissione nella nostra sfera personale, nella proprietà, nel domicilio è rivolta a tutti, persone private e autorità pubbliche. Il codice penale è in larga parte fatto di regole che tipizzano comportamenti dei privati lesivi dei “beni” che le libertà “negative” tutelano: significativamente le fattispecie di reato iniziano di norma con un “chiunque” che cancella qualsiasi differenziazione nella qualificazione dell’agente (anche se in alcuni casi la qualità di “pubblico ufficiale” dell’agente comporta un sensibile aggravamento della pena). Al contrario, i diritti “sociali” sono pretese rivolte agli apparati pubblici, istituiscono una duplice relazione bilaterale tra privato e pubblico fatta di imposte, da un lato, e di servizi, dall’altro.

Il secondo corollario riguarda invece il bilanciamento. La diversa rilevanza del “costo”, infatti, fa sì che la distinzione tra le due classi di “diritti” abbia una ricaduta (ovviamente prescrittiva) quanto alla legittimazione degli interessi antagonisti, quelli cioè che possono essere ammessi al bilanciamento. Sembrerebbe conseguente, infatti, indicare nelle esigenze di bilancio, e quindi nelle ragioni della politica economica, il tipico controlimite ai diritti sociali, per loro natura destinati a piegarsi di fronte alle esigenze funzionali connesse all’erogazione dei servizi; mentre limiti di questo tipo non sarebbero mai opponibili alle libertà “negative”. Ecco dunque che l’ordine prende finalmente forma: se le libertà “negative” prevalgono sulle esigenze economiche e funzionali, e se queste prevalgono sui diritti di prestazione, si deve concludere che, per la proprietà transitiva, le libertà “negative” prevalgono sui diritti “positivi”.

Ma è proprio vero che vi sono libertà e diritti che “costano” e altre che “non costano”? Insomma, è fondato l’assioma di partenza? A me sembra di no.

L’aspetto “negativo” (la richiesta di non essere costretto) e l’aspetto “positivo(la richiesta di strumenti per realizzare i propri obiettivi) sono sempre presenti e strettamente legati in ogni “libertà” e in ogni “diritto” sanciti dalla costituzione. Così, per esempio, il “diritto” alla salute, come pretesa di ricevere dal potere pubblico prestazioni sanitarie adeguate, ha un immediato risvolto “negativo” nella “libertà” da trattamenti sanitari obbligatori; mentre la libertà, classicamente negativa, di poter esprimere il proprio pensiero ha un riflesso “positivo” nella richiesta allo Stato di garantire il più ampio accesso ai mezzi di comunicazione. Sono cose note e certo non determinanti. Diventeranno molto più rilevanti in seguito, quando ci troveremo di fronte al problema del “contenuto minimo” dei diritti: certe radicate convinzioni, come quella del carattere “programmatico” dei diritti positivi, contrapposto alla natura “precettiva”, e perciò pienamente giuridica, delle libertà negative, subiranno un duro e salutare colpo.

Ma ora va considerato un secondo aspetto, su cui spesso si accumulano gli equivoci: il problema dell’intervento dell’autorità pubblica. Gli equivoci nascono dalla convinzione, assai diffusa, che per le libertà ciò che si chiede allo stato è essenzialmente l’astensione da qualsiasi intervento, e quindi la loro tutela non abbia “costi” per la finanza pubblica, mentre per i diritti sia indispensabile invece l’intervento pubblico, e quindi essi siano “costosi”. Questa convinzione è priva di serio fondamento. Se prendiamo le tipiche libertà “negative” - per esempio la libertà personale, la libertà di domicilio o la proprietà privata – vediamo che esse implicano ingenti interventi e “costi” pubblici. Quale garanzia avrebbe infatti l’integrità fisica degli individui senza un ingente (e costoso) apparato di pubblica sicurezza posto a protezione di essa o senza il complesso (e costoso) apparato giudiziario? E cosa sarebbe la proprietà senza un apparato di protezione che tuteli, non solo attraverso strumenti di polizia, ma anche attraverso il servizio antincendi, la sistemazione delle acque, la protezione civile e la “garanzia” pubblica per le calamità naturali? Ancora una volta si può notare che la distinzione ha basi più ideologiche che “oggettive”.

Che esistano diritti del tutto “negativi”, ossia che consistono in una pura richiesta di astensione rivolta agli altri soggetti pubblici o privati, è un mito[4]: tutti i diritti e le libertà hanno bisogno di un’organizzazione pubblica e dunque sono “costosi”. In fin dei conti è sempre una questione di scelta tra “politiche pubbliche” decidere se rafforzare le garanzie (e i costi) delle “libertà” o quella dei “diritti”. Sono gli organi pubblici a dover scegliere come impiegare le risorse finanziarie: si può decidere, per esempio, di migliorare le prestazioni pubbliche nella garanzia della incolumità fisica delle persone e della protezione della proprietà, destinando maggiori risorse all’organizzazione degli apparati della polizia, migliorando il trattamento dei proprietari espropriati, rafforzando le garanzie processuali per chi subisce limitazioni alla libertà personale (il che però potrebbe significare anche un aumento delle difficoltà di giungere ad una rapida punizione di chi si macchia di crimini contro l’integrità fisica o la proprietà); oppure si può decidere di rafforzare la protezione dei diritti sociali, migliorando le prestazioni sanitari o il sistema pensionistico.

Possiamo ragionare anche movendo lungo l’altro asse dell’intervento pubblico, l’altro corso della relazione pubblico-privato: le tasse. I meccanismi di esenzione fiscale sono equivalenti ai meccanismi di intervento diretto che operano tramite l’erogazione di danaro o di servizi. Allora, se il nostro sistema consente di detrarre, almeno in parte, le spese sostenute per acquisire certi servizi sociali – le spese mediche e quelle previdenziali; forse prossimamente le spese educative – oppure quelle a supporto di soggetti che a loro volta erogano servizi pubblici – le confessioni religiose, gli enti di beneficenza – mentre non sono concepiti meccanismi di esenzione per le spese sostenute al fine di garantire i diritti “negativi”, questa è una scelta ideologica, non una conseguenza del fatto che questi diritti non “costano”. Perché lo Stato non mi consente di detrarre, per esempio, le spese per la difesa legale (almeno quando siano in gioco le mie libertà fondamentali), oppure le spese per rafforzare, ricorrendo ad operatori privati, la “vigilanza” sui miei beni e la mia persona, od ancora le spese sostenute per reintegrare i miei beni che sono stati rubati (visto che il furto è stato possibile per una difettosa funzionalità del servizio pubblico di vigilanza, nonostante tutto quello che costa)? Lo Stato – si badi bene – non lo consente a me, privato cittadino, mentre lo consente all’operatore economico: questi, infatti, può computare tutte queste spese come “costi”, io no. Come regge allora l’immagine del diritto fondamentale “negativo”, che vale erga omnes, non comprimibile in nome di esigenze funzionali e economiche? Semplicemente non regge.

 

5. Non vorrei essere frainteso. Come tutti, ritengo anch’io che le libertà individuali “negative” vengano prima di quelle “sociali”. Avendo – per mia fortuna – subito più furti che interventi chirurgici, non vedrei affatto di malocchio un’estensione delle esenzioni fiscali alle spese derivanti dai furti, danneggiamenti ecc.; oppure una parificazione delle assicurazioni contro i furti (o per le spese legali) alle assicurazioni sulla vita o per le spese mediche e previdenziali. Anzi, mi piacerebbe poter sostenere davanti alla Corte costituzionale l’illegittimità della legge fiscale “nella parte in cui” non mi consente di detrarli: se la prima obbligazione dello Stato è garantire la sicurezza delle persone e dei loro beni,beni - potrei argomentare - non è giusto che lo Stato “guadagni” sulle spese che io devo sostenere per ripristinare ciò che ho perso a causa della carenza dei mezzi impegnati dalla Stato per ottemperare a quell’obbligazione.

Non è male come ragionamento: ma la Corte – ne sono sicuro – mi risponderebbe, come ha sempre fatto, che le esenzioni fiscali sono norme eccezionali che non sono soggette ad interpretazione estensiva. In questo campo, le classificazioniscelte discrezionali del legislatore non sono censurabili se non quando “trasmodino in palese irragionevolezza. L’espressione è “doc”, ma ci riporta al classico self restraint che la Corte applica quando si tratta di valutare l’adeguatezza delle prestazioni pubbliche rivolte ad assicurare i diritti “positivi”: mi parlerebbe, la Corte, dell’esigenza che il legislatore contemperi le esigenze contrapposte di tutela dei diritti dei privati e di contenimento della spesa pubblica.

Non è curioso? Il mio ragionamento, in questo paragrafo, è partito da un’affermazione netta circa la precedenza delle libertà “negative” rispetto a quelli “positivi”: ma alla fine mi ritrovo in una situazione di equiparazione degli uni rispetto agli altri. Il fatto è che ho iniziato a parlare dei “diritti” in astratto, per figurini:“figurini”: poi, man mano il mio discorso planava sul terreno giuridico, i due “figurini” si sono sfaldati. E alla fine risulta che per la Corte costituzionale non muterebbe affatto strategia per il solo fatto che si tratta di libertà “negative” o di diritti “positivi”.

Ancora una volta, si badi, non siamo di fronte alle perversioni di un singolo giudice costituzionale: sono temi e strategie argomentative, questi, che accomunano tutti i giudici che si occupano delle difesa dei diritti costituzionali. Sbagliano?

Non sbagliano affatto. Il giudice che “tratta” questioni connesse ai diritti si muove di necessità all’interno delle coordinate fattuali e giuridiche tipiche del “caso”. È in relazione al caso concreto che deve decidere la “regola di prevalenza”, l’assetto gerarchico dei diritti. Lo può fare soltanto “pesandoli”, e li può pesare soltanto calcolando in che modo i due “diritti” si sovrappongano, in che punto ciò avvenga, cosa residui per il godimento dell’uno e dell’altro. Insomma, sviluppando tutti quei ragionamenti e quelle argomentazioni attraverso i quali si snoda il giudizio di bilanciamento. Ma la premessa di tutto ciò è che non vi sono assetti di interessi pre-giudicati, gerarchie assolute, diritti di precedenza consolidati, classificazioni che precostituiscano un ordine generale.

 

6. Un ultimo equivoco va affrontato. È diffusa l’idea che un “bilanciamento” possa aversi solo tra diritti sostanzialmente omogenei: nessuno si turba se, per esempio, la libertà di espressione viene compressa in nome del diritto alla privacy o all’onore, oppure se al diritto di proprietà s’oppongono limiti collegati al diritto (altrui) alla salute. Molto meno accettata è un’altra linea di conflitto, quella che oppone i diritti fondamentali (e, naturalmente, in prima fila quelli “negativi”) con esigenze del tutto disomogenee, come possono essere quelle connesse alla funzionalità degli apparati pubblici o, ancora, all’equilibrio della spesa collettiva. Di recente ho sentito dire che questo accostamento tra “insiemi” disomogenei è un vulnus alla ragione matematica, è come se si volessero sommare cavoli e mele. Ma ovviamente non è così.

Cavoli e mele non possono essere sommati o sottratti, ma si può benissimo determinare il peso di un cestino di mele ponendo sull’altro piatto della bilancia un cestino di cavoli. Il prezzo e il peso sono realtà esterne agli insiemi, che consentono il raffronto tra insiemi disomogenei. Il vero fondamento di questa critica non è matematico, dunque, ma ideologico: e in parte formalistico.

Una certa dose di formalismo sta nel denunciare la mancanza di copertura costituzionale degli interessi che si oppongono ai “diritti”. È un discorso doppiamente stonato.

Da un lato perché il catalogo dei diritti costituzionali non è certo esaustivo. Manca una citazione del diritto alla privacy, l’onore non è menzionato, nulla si dice sulla libertà di coscienza e neppure del “diritto alla vita”, nell’ombra restano diritti di recente “generazione” come l’identità sessuale. Per creare uno status costituzionale a questi “diritti” è necessario compiere operazioni spericolate d’interpretazione estensiva ed evolutiva del testo costituzionale, oppure scoprire la natura generativa di nuovi, infiniti diritti dell’art. 2 Cost. (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo…”). La stonatura è evidente: la vendita dei titoli nobiliari prelude alla perdita del loro significato sociale, e così è pure per lo status costituzionale dei “diritti”. Elargire lo status di diritto costituzionalmente riconosciuto ad interessi che filtrano per la porticina di un’interpretazione spregiudicata, rende assai poco credibile poi il tentativo di spendere questo status per rintuzzare altri interessi antagonisti, privi di titolo nobiliare.

Dall’altro lato questo discorso è stonato perché dimentica che la costituzione non è fatta solo di “diritti”, e che la stessa tutela dei diritti passa per l’efficienza degli apparati organizzativi. Tutto l’ineffabile dibattito italiano attorno alla giustizia si snoda, con l’inconsapevolezza tipica dei dibattiti politici italiani, lungo questa trama: esiste un diritto di difesa efficiente senza una macchina giudiziale (organizzativa e procedurale) efficiente? Se è vero – e lo si affermava poc’anzi – che non c’è effettiva garanzia di un diritto individuale, negativo o positivo che sia, senza un’efficiente apparato giudiziario (e perché non anche sanitario, scolastico, antifortunistico ecc.?), diritto ed efficienza si rivelano termini, sì disomogenei, ma inseparabili.

Naturalmente vi potrebbe essere un’altra linea di attacco: distinguere tra il diritto, il suo contenuto essenziale, e le modalità con cui esso può essere esercitato, in modo da potere imputare le concorrenti ragioni dell’efficienza e dei costi non al “diritto” in sé, ma alle modalità del suo esercizio. Questo è un approccio da tempo proposto in Italia e assai frequente nella teoria tedesca dei Grundrechte[5]. La stessa giurisprudenza costituzionale è già giunta, in Italia come in Germania, a indicare l’esistenza di un Wesensgehalt, un contenuto essenziale dei diritti, non comprimibile: un limite di resistenza al bilanciamento. È probabile che esso sia in qualche modo collegabile a quei “princìpi supremi dell’ordinamento costituzionale” che la Corte costituzionale ha ripetutamente posto a riparo da erosioni causate dall’ingresso di norme non nazionali e persino da revisione costituzionale. È possibile allora avvalorare la tesi di coloro che hanno indicato l’opportunità di distinguere il nucleo forte di protezione del diritto dal suo àmbito di applicazione e dalle modalità di esercizio? Abbiamo forse trovato persino un appiglio per edificare un ordine gerarchico?

Lo sforzo concettuale che tale linea di analisi e di elaborazione richiede è del tutto sproporzionato ai risultati, che sono demoralizzanti. La giurisprudenza costituzionale ci indica con chiarezza che il Wesensgehalt è un argomento interno alla strategia del bilanciamento degli interessi: è impiegato per indicare che un certo assetto degli interessi è squilibrato perché uno degli interessi in gioco è di fatto negato. Di solito è negato proprio perché le modalità del suo esercizio sono eccessivamente penalizzanti. Per esempio, se i termini per ricorrere contro un provvedimento sono troppo restrittivi, essi violeranno il “contenuto minimo” (ossia la ”minima praticabilità”) di quel diritto; se non è previsto che siano indennizzati i danni prodotti dalla vaccinazione obbligatoria, si lede il “contenuto minimo” del diritto alla salute (sent. 307/1990); altrettanto avviene di fronte ad indennizzi insufficienti della proprietà privata espropriata (sentt. 91/1963, 470/1990…) o se non viene esclusa la punibilità nel caso in cui si è agito in stato di bisogno (sent. 102/1975); e poi, come ovvio, la violazione del Wesensgehalt scatta di fronte ad ogni eccessiva compressione delle prestazioni pubbliche.

Il contenuto del diritto e le modalità del suo esercizio non sono dunque profili distinguibili. Anzi, siccome le modalità di esercizio di un diritto devono fare i conti con infiniti profili funzionali – esigenze organizzative, funzionamento delle macchine e delle procedure pubbliche, costi finanziari[6] - una volta di più viene corroborato quanto sin qui si è sostenuto: che tra i “diritti” costituzionalmente protetti e gli interessi funzionali non vi è gerarchia, ma concorrenza. Inoltre, la questione del “contenuto minimo” ci conferma anche un altro punto importante: che, alla fine, ciò che in un diritto rappresenta la parte più dura, quella che sta al centro della cupola dell’ombrello, si comporta egualmente tanto per le libertà negative che per i diritti positivi. Il Wesensgehalt del diritto di difesa, della libertà di domicilio, della libertà di espressione o del diritto alla salute e alla sicurezza sociale, ha sempre e comunque una natura immediatamente precettiva, efficace erga omnes, indisponibile ad ulteriore compressione e limitazione di esercizio. È una tautologia, in fondo, perché queste sono i connotati tipici che concorrono a definire il “contenuto minimo”: è allora, una volta di più, che senso ha tracciare differenze e classificazioni tra “diritti” che hanno gli stessi connotati?

 Ancora una volta dobbiamo concludere riconoscendo che tutti questi tentativi definitori e classificatori sono ispirati da un forte pregiudizio ideologico, ma sono strumenti d’analisi spuntati. Nulla di male però. Che il giudice muova da un pregiudizio ideologico attorno alla precedenza dei “diritti” sugli interessi funzionali e dei “diritti negativi” rispetto ai “diritti positivi” appartiene, in fondo, all’ideologia dello Stato liberale: ed avrà la conseguenza – positiva, se letta in termini ideologici – di spingerlo a sottoporre le leggi che comprimono i diritti, e le libertà negative in particolare, ad uno strict scrutiny. I “figurini” dei diritti a questo servono. Basta ricordare che sono pura ideologia.

 



[1] È quanto prevede il decreto delegato che disciplina l’I.V.A. (d.P.R. 633/1972), all’art. 52.

[2] Secondo la formulazione della regola di preferenza elaborata da R. ALEXY, Theorie der Grundrechte, Baden Baden 1985,  83 ss.

[3] Al bilanciamento dei diritti, con particolare attenzione alla giurisprudenza costituzionale italiana, ho dedicato Diritti e argomenti, Milano 1988; al rapporto tra la regola di prevalenza e le circostanze fattuali sono rivolte inoltre alcune considerazioni in L’ultima fortezza, Milano 1996, 70-76.

[4] Questa la tesi di fondo del delizioso pamphlet di S.HOLMES e C.R.SUNSTEIN, The Costs of Rights – Why Liberty Depends on Taxes, New York – London 1999.

[5] Per una recente e chiara ricostruzione del dibattito tedesco cfr. M. BOROWSKI, Grundrechte als Prinzipien, Baden Baden 1998.

[6] Una attenta e assai pregevole ricostruzione della giurisprudenza costituzionale in argomento è ora offerta da G.M.SALERNO, L’efficienza dei poteri pubblici nei princìpi dell’ordinamento costituzionale, Torino 1999.