POTERE COSTITUENTE E REVISIONE COSTITUZIONALE: QUATTRO VARIAZIONI SU TEMI DI BARNAVE

 

di

Roberto Bin

 

 

 

         Il discorso di Barnave tocca alcuni nodi fondamentali della teoria costituzionale. Per questa ragione mantiene una sorprendente attualità per il giurista dei nostri giorni, attualità che si avverte specie laddove, come nell' Italia d'oggi, la questione della revisione costituzionale si ritrovi ad iniziare l'ordine del giorno nel dibattito politico. Gli storici ci rivelano l'intentio auctoris, gli obiettivi concreti che Barnave perseguiva nel complesso intreccio di eventi che accompagnò i lavori dell' Assemblea Nazionale; e poi ci raccontano, impietosi, dell'insuccesso subito da Barnave e dalle sue tesi. Ma, quali fossero gli intenti personali dell'autore, gli argomenti che Barnave sviluppa nel suo discorso non sono stati affatto superati dagli eventi costituzionali dei due secoli trascorsi. Ne ho selezionato quattro, su cui vorrei trattenermi per qualche riflessione.

 

         1. Il primo argomento potrebbe avere come titolo "rivoluzione e legittimazione" e si inserisce nel panorama della tradizionale contrapposizione tra potere costituente e potere costituito. La visione che ci suggerisce Barnave del potere costituente, un fatto rivoluzionario non ripetibile e sostanzialmente pericoloso ("ce voeu spontané du peuple, qui n'arrive jamais que par la souffrance et l'altération successive des pouvoirs constitués"), pone l'accento su quell'elemento di non-giuridicità dei fatti costitutivi del diritto che ha sempre attratto l'attenzione dei teorici, di qualsiasi estrazione essi fossero: ha ispirato a Santi Romano uno dei saggi di maggior importanza[1] e costretto la Reine Rechtslehre a postulare una premessa metafisica (ossia, esterna alla portata esplicativa della scienza giuridica) riassunta nella Grundnorm. La rivoluzione - per definizione, come i giurisiti ben sanno - rompe la continuità di un ordinamento giuridico, per le cui categorie rappresenta l'essenza del fatto illecito. Ma fuori del diritto vi è un insopportabile deficit di legittimazione. Le rivoluzioni si ammantano perciò di continuità, cercano di tirare su di sé la coperta della legittimazione giuridica tessuta con le regole del regime rovesciato. Il regicidio strapperebbe con violenza quella coperta, rivelerebbe lo stato di assoluta anomia in cui si svolge il gioco del potere. Da questa situazione si può uscire solo con la instaurazione di un ordine giuridico nuovo, capace di legittimare ex post gli eventi "costituenti" che hanno segnato la rottura della continuità giuridica. Ma qui si pone il problema.

         La rivoluzione è l'evento antigiuridico che fonda la legittimazione politica di un sistema giuridico costituito ex novo; ma la miscela altamente infiammabile che l'innesca, e funge da propellente per il processo di legittimazione, è anche altamente volatile, evapora in poco tempo. Come avverte Barnave, è il desiderio di tranquillità della gente a spegnere la carica legittimante di una rivoluzione che non sia capace di tradursi in ordine giuridico in un tempo conveniente: o il nuovo ordine si instaura, o il vecchio si restaura. Ma se il processo costituente non ha un termine preciso e ragionevolemente vicino, esso non riesce ad imporre al potere costituitosi di fatto di legittimarsi attraverso la regola della Costituizone, attraverso il diritto. Anzi, si rischia di assistere al processo inverso: che la lotta delle fazioni per costituirsi come potere di fatto, lotta troppo a lungo lasciata senza una regola giuridica, coinvolga il processo costituente e in esso si prolunghi. La Costituzione non sarà dunque più il segno della cessata anomia e del ripristino di una legalità legittimante, ma il palio incessantemente e sregolatamente conteso dalle fazioni in campo: il circolo vizioso che si innesca tra mancanza di regola e impossibilità di una conclusione della lotta verrà spezzato allora solo dalla restaurazione.

         Ecco che il problema del tempo, della durata dei processi, incomincia a rivelare la sua importanza.

 

         2. Al secondo argomento darei il titolo "ingegneria costituzionale e sistema politico": si ambienta nella tradizionale contrapposizione teorica tra validità e effettività del diritto.

         Nella sua introduzione al Discorso, Chabot punta il dito sull'"irrealismo dell' ingegnere costituzionale", sul "tentativo illusorio" di stabilizzare attraverso il diritto un quadro politico irrimediabilmente instabile, che infatti impiegò a travolgere quella Costituzione molto meno tempo di quanto era stato necessario per scriverla. La "fallacia ingegneristica" è purtroppo assai praticata: ne sa qualcosa chi è costretto a seguire l'odierno dibattito italiano sulla revisione della "forma di governo". L'idea che per mezzo di un nuovo disegno costituzionale dei rapporti tra gli organi che si ripartiscono il potere pubblico si possa mutare la sostanza del sistema politico, dagli atteggiamenti elettorali all'organizzazione partitica, imporre il passaggio da un'estrema frammentazione politica alla formazione di un sistema bipolare, rinnovare le leadership ed i rapporti tra partiti e potere pubblico, stabilizzare le maggioranze e i governi: questa idea, tentante quanto fuorviante, è alla radice di tutte le proposte di riforma costituzionale. Ma forse tutto questo Barnave lo sapeva.

         Non mi propongo di ridimensionare i termini del suo insuccesso. Tale esso fu, malgrado la diffusione che ebbe in seguito la formula della revisione costituzionale da lui caldeggiata, il lento processo che si snoda attraverso più voti delle assemblee elettive e più voti degli elettori per rinnovarle. E' una soluzione ancora in auge (con molte varianti, ovviamente) in alcune costituzioni contemporanee: da quella "antica" del Belgio (per non dire di quella norvegese, ricalcata sulla costituzione del '91??) a quelle recenti della Danimarca e della Svezia, della Grecia e della Spagna. I motivi di questo successo si spiegano, a mio avviso, proprio alla luce dell'obiettivo che Barnave si proponeva, obiettivo che mi pare molto sensato e, alla fine dei conti, assai lontano da una visione "ingegneristica" della Costituzione. Lo possiamo cogliere riflettendo su questo passo di un grande costituzionalista italiano, Carlo Esposito:

 

la costituzione dello Stato designa un fatto oltre che una regola, contras­segna l'ordinamento valido ed efficace dell'organizzazione suprema dello Stato oltre che la legge di organizzazione; o, più sinteticamente, il punto di incidenza tra il diritto e il fatto. Per tal carattere le disposizioni co­sti­tuzionali, a differenza da ogni altra di­sposizione giuridica, non sono lega­te solo a condizioni giuridiche di validità, ma anche a condizioni di fatto di efficacia, e non vigono solo che siano imposte giuridicamen­te nelle forme di legge, ma se siano anche in grado di farsi valere con­cretamente come re­gola sugli organi supremi dello Stato[2].

... sicché la validità delle disposizioni in tal materia resta subordinata, per la medesima natura del loro contenuto, alla loro capacità di tradursi in atto e alla effettiva sussi­stenza e permanenza del potere politico in quelli ai quali, considerati nel loro com­plesso, si è riconosciuto la capaci­tà giu­ri­dica a possederlo[3].

 

         Per un testo normativo come la Costituzione, frutto di un "mouvement spontané" del popolo, di una sua espressione di volontà di per sé contraria al diritto (pre)costituito, non ha senso parlare di "validità": la sua validazione non può derivare dalla corrispondenza ad una norma superiore, che per definizione non c'è, ma dalla effettività.

 

La sopravvivenza, sebbene non ovviamente l'iniziale adozione, di un tale ordine costituzionale dipende dalla consuetudine: dalla consuetudine, cioè, di ricondurre tutte le questioni giuridiche in ultima istanza ai criteri e alle disposizioni poste nel documento costituzionale...

La consuetudine, nel senso in cui io intendo questo termine, è un prodotto della ragione pratica degli esseri umani applicata alla necessità di assicurare un quadro stabile alla convivenza umana[4]

 

         Ecco di nuovo il problema del tempo! Per un ordinamento costituzionale che esce da una rivoluzione (e che rivoluzione!), il problema di consolidarsi, di consolidare la consuetudine su cui di fonda la sua vigenza, è il problema prioritario. Perciò assicurarne la durata, offrirgli la possibilità di consolidarsi e di essere accettato come regola dell'ordine stabilito (de la conservation del la liberté et de la tranquillité publiques)[5] e come fonte di legittimazione del potere, diviene un obiettivo strategico, se non una vera e propria condizione di pensabilità della stessa costituzione.

         Il tempo diviene un fattore centrale, e del tempo si preoccupa essenzialmente la procedura di revisione caldeggiata da Barnave. Che egli abbia condiviso la "fallacia ingegneristica" oggi così di moda, può certo essere. Ma l'insistenza con cui sottolinea l'esigenza che "une machine politique toute neuve et nécessairement compliquée" sia messa alla prova dell'esperienza, che sia corredata di un "moyen lent, sage, circonspect" per ovviarne gli inconvenienti, il continuo elogio della lentezza negli interventi correttivi e modificativi del testo costituzionale: tutto ciò acquista un significato di tutt'altro segno se letto in questa chiave, alla luce dell'esigenza di far durare l'assetto costituzionale almeno quel tanto che gli serve per divenire effettivo, per imporsi come regola della lotta per il potere, per funzionare come uno degli elementi che concorrono a stabilizzare il sistema politico. Perciò exigez de la lenteur!

 

 

         3. Il terzo argomento potrebbe chiamarsi "regole e maggioranza", e si svolge sullo sfondo della contrapposizione, tradizionale quanto un po' troppo banalizzante, tra costituzione rigida e costituzione flessibile.

         Dico che questa distinzione è un po' banalizzante perché, come sempre accade alle grandi dicotomie, anche la coppia fles­si­bile/rigida, che si usa per classificare le costituzioni, ha subito, nell'uso quotidiano, un processo di scle­rosi, che l'ha privata di quel tanto di ela­sticità critica che poteva avere all' inizio. La opposizione flessibilità-rigidità, nell'uso attuale, guarda essenzialmente ad aspetti formali e procedurali relativi ai rapporti tra le fonti, e trala­scia invece un aspetto assolu­tamente centrale, cioè quale sia l'oggetto della disciplina costituzionale e quale la sua ratio.

         L'oggetto delle Costitu­zioni "flessibili" del XIX sec. era molto preciso e molto circoscritto: "le costitu­zioni si concepivano piuttosto quali barriere al passato irrevoca­bile, anziché regolamenti giuri­dici della futura azione degli or­gani pubblici"[6]. In fondo, il loro con­te­nuto si risolveva nella determi­nazione di una regola sul procedimento decisionale, tale per cui tutte le decisioni di rilievo dovevano essere assunte at­traverso l'intesa e la collaborazione tra il Re e le Camere (come dice Barnave, parlando del sistema inglese, "la législation y est confiée à trois pouvoirs opposés qui, respectivement, se limitent et empêchent la rapidité et la facilité des changements"). La legge formale era l'incarnazione di questa re­gola[7], il procedimento legislativo la sua trascrizione.

         Era questo l'orizzonte di Barnave? No di certo: il fatto stesso che i decreti di revisione, pur sottoposti alle stesse modalità di approvazione delle leggi, non sarebbero stati assoggettati alla sanzione regia, spezza irrimediabilmente quel meccanismo decisionale[8]. Il rafforzamento del procedimento di revisione è auspicato per raggiungere gli scopi propri verso cui guardano le costituzioni "rigide". Non l'argine al passato, ma una regola destinata a governare la lotta politica e regolare i rapporti tra maggioranza e minoranze.

         Se la formula di procedimento per la revisione costituzionale propugnata da Barnave ha avuto in seguito il successo che si è detto, ciò è dovuto alla sua efficienza rispetto ad un preciso obiettivo: impedire alle forze politiche che raggiungono la maggioranza di impossessarsi del controllo delle regole del gioco. Tre sono le soluzioni che vengono usualmente adottate per produrre questo risultato: maggioranze rinforzate, superiori a quelle comunemente richiesto per governare; l'esclusione dalla revisione di alcune parti della Costituzione; un procedimento frazionato in più legislature, come propone Barnave.

         Come è evidente, non sono affatto soluzioni equivalenti, perché servono scopi diversi[9]. La prima, puntando su una maggioranza qualificata, è solo una variante del principio maggioritario, di cui non riesce a superare tutti gli inconvenienti: resta la possibilità che le forze maggiori, appositamente alleatesi, schiaccino definitivamente quelle minori, liberandosene per sempre; resta il rischio che un'occasionale vittoria elettorale consenta ad un partito di procedere da solo ad una definitiva modifica a suo vantaggio delle regole del gioco. Il correttivo più usuale di questo sistema, che è il ricorso ad un voto diretto del corpo elettorale a conferma del testo approvato dalla assemblea rappresentativa (il sistema che vige  attualmente, con le varianti del caso, in molti paesi, come l'Italia e la Francia, per esempio), non elimina affatto quegli inconvenienti (perché applica, come è ovvio, anche al referendum il principio maggioritario), e ne aggiunge alcuni altri, strettamente connessi alla consultazione diretta del popolo sulla materia costituzionale: ma di ciò dirò dopo.

         La seconda soluzione ha l'obiettivo di sottrarre a discussione alcuni tratti qualificanti della forma di governo, fissando per sempre alcune regole del gioco politico. Ma si muove sullo strettissimo crinale tra due possibilità: o proteggere poco, e quindi non funzionare come un baluardo sicuro difronte ai tanti modi con cui la lotta politica può corrompere il suo equilibrio; o proteggere troppo, e quindi favorire l'instabilità della Costituzione per eccesso di rigidità, rigidità superabile soltanto, in assenza di procedure legittime di revisione, dissotterando con frequenza il potere costituente.

         La terza soluzione, quella sostenuta dal discorso di Barnave, mira apertamente a scoraggiare le modifiche del testo costituzionale, o almeno di alcune sue parti[10]. Ma l'obiettivo non è perseguito soltanto dilatando i tempi di approvazione della modifica costituzionale. Spezzando la continuità della legislatura si costringe la maggioranza politica, che ha voluto l'emendamento, a rifare i conti con il proprio elettorato: i colpi di mano della maggioranza diventano così più difficili. Infatti, le forze politiche che, grazie ad un eccezionale risultato elettorale, trovassero in parlamento i numeri per procedere da sole (senza ricercare intese con l'opposizione) a rimodellare la costituzione sulla misura dei propri interessi di parte, vedrebbero immediatamente troncata la legislatura e, con essa, il loro strapotere, dovrebbero riaffrontare l'alea di una nuova consultazione elettorale, dovrebbero rispondere all'elettorato dell'uso che hanno fatto dei voti loro conferiti. Il meccanismo, insomma, non mira tanto ad allungare i tempi delle modifiche, quanto a ridurre le probabilità che modifiche decisive nell'assetto fondamentale della costituzione siano dettate da (indifendibili) interessi di parte.

 

 

         4.  Ma vi è un altro profilo del tema "regole e maggioranza" che il discorso di Barnave tocca: la consultazione diretta del popolo sulle modifiche da apportare alla Costituzione. A questa variazione darei il titolo "tecnica e libertà di voto".

         Si tratta di un argomento di grande complessità e, in Italia, di grande attualità. In moltissimi sistemi costituzionali attuali il processo di revisione costituzionale, quale ne sia l'articolazione, culmina con una fase di consultazione elettorale. In Italia, come è noto, ciò può avvenire, su richiesta di minoranze, quando la proposta di revisione non sia stata approvata dalle due camere da almeno due terzi dei loro membri. In altri paesi il referendum di approvazione è obbligatorio (come in Giappone), obbligatorio ma derogabile (come in Francia, dove il Presidente della Repubblica ha la facoltà di avviare un procedimento parlamentare alternativo al referendum), facoltativo (come in Svezia e Spagna), variamente combinandosi del resto con i più vari procedimenti di approvazione degli emendamenti.

         L'antipatia di Barnave per la consultazione diretta appartiene alla generale avversione della sua epoca per la democrazia diretta, "le plus grand des fléaux". Che il popolo, sovrano, abbia bisogno e riconosca nei suoi rappresentanti "ses tuteurs", oggi non lo dice più nessuno, se non sottovoce e nella foderata intimità di qualche circolo retrivo. Ma resta il problema, diciamo così, "tecnico": come può il corpo elettorale esprimersi su una questione complessa come la riforma della costituzione? E' chiaro che non tutte le modifiche del testo costituzionale sono di per sé fonte di grande complessità: ma quello di cui si sta parlando, di cui merita parlare, è la riforma che incida su un tratto significativo del disegno costituzionale, quale, per esempio, la forma di governo, ossia la quintessenza delle regole del gioco politico. Qui la complessità "tecnica" non deriva tanto dalla difficoltà del tema, dall'esigenza di compiere scelte dotate di coerenza interna ed esterna, con il resto del "sistema". La complessità è legata anzitutto alla tecnica di voto, alla libertà di voto.

         Che la tecnica con cui gli elettori sono chiamati a votare incida sulla libertà del loro voto è un fatto su cui la Corte costituzionale italiana, in una nota sentenza in tema di referendum, ha avuto modo di dire parole di grande acutezza:

 

Se è vero che il referendum non è fine a se stesso, ma tramite della sovranità popolare, occorre che i quesiti posti agli elettori siano tali da esaltare e non da coartare le loro possibilità di scelta; mentre è manifesto che un voto bloccato su molteplici complessi di questioni, insuscettibili di essere ridotte ad unità, contraddice il principio democratico, incidendo di fatto sulla libertà del voto stesso.[11]

 

         Il problema sta proprio tutto qui: se agli elettori vengono prospettati quesiti singoli, attinenti al mutamento di specifiche parti della Costituzione, nessuno ci garantisce la coerenza del prodotto finale; ma se il voto è richiesto sull'intero "pacchetto" degli emendamenti, viene ridotta la capacità di scelta critica degli elettori, repressa ogni sfumatura nel voto, artificiosamente semplificata la complessità delle opinioni, degradato insomma il voto ad una espressione di consenso plebiscitaria e acritica: cessa, come dice Barnave, di essere "un véritable voeu".

         Ed è proprio su questa degradazione del voto che fioriscono i sospetti della sua manipolazione. Arriva il populismo, il ricorso ad ogni "moyen trivial", la sistematica manipolazione dell'interesse popolare per raggiungere qualche interesse personale. Barnave si riferiva all'esperienza dei tribuni romani: forse oggi abbiamo difronte agli occhi esempi di ben più impressionante efficienza!

 

 



[1] Mi riferisco a L'instaurazione di fatto di un ordinamento costituzio­na­le e la sua legittimazione, in Archivio giuridico "Filippo Serafini", LXVIII (1901), 3 ss., ora raccolto in Lo Stato moderno e la sua crisi, Milano 1969, 27 ss.

 

[2] La validità delle leggi, Milano 1934, 205 (corsivo aggiunto).

 

[3] La validità cit., 210 (corsivo aggiunto).

 

[4] N. MacCORMICK,  La morale istituzionale e la costituzione, in N. MacCORMICK - O. WEINBERGER, Il diritto come istituzione, Milano 1990, 232

 

[5] "Tale consenso è concepito sempre come diretto a preservare un valore, quello, detto in termini generali, dell'ordine contro il caos":  con queste parole N. MacCORMICK,  La morale istituzionale  cit., 233 s. conferma l'intuizione di Barnave circa l'obiettivo massimo ( il grand monument) dell'assemblea costituente

 

[6] Così si esprime il più autorevole dei commenti allo Statuto Albertino, RACIOPPI-BRUNELLI, Commento allo Statuto del Regno, I, Torino 1909, 194. Cfr. anche MAR­CHI, Lo statuto albertino ed il suo sviluppo storico, in Riv. dir. pubbl. 1926, I, 187 ss., 190 (sul si­gnifi­cato di "irrevocabile") e 194 (lo Statuto come "soluzione di continuità giuridica", "barriera insor­mon­tabile...una barriera per il passato, ... che impedisce di tornar indietro al sistema assoluto, non una bar­riera che impedisca di procedere innanzi per la gran via delle libere forme").

 

[7] "Se politicamente è proprio della legge soprattutto la collaborazione della rappresentanza popolare, si spiega allora l'inversione politicamente semplice, anche se logicamente falsa: ciò che è prodotto con la collaborazione della rappresentanza popolare, è una legge. Imperio della legge significa quindi collabo­razione o in definitiva predominio della rappresentanza popolare": SCHMITT, Verfassungslehre, tr. it., Milano 1984, , 201.

 

[8] In effetti, questa norma sembra voler confondere ulteriormente, anziché chiarire, il ruolo del re: però FOLEY (The Silence of Constitutions, London-New York 1989) ha acutamente messo in luce che, come spesso è avvenuto dei principali nodi teorici dei sistemi costituzio­nali, scritti e non, la loro soluzione non sta in una chiarificazione esplicita, testuale, ma, tutto all'oppo­sto, nell'ambiguità della norma costituzionale e nella possibilità che essa offre alla solu­zione compromissoria di conflitti potenzialmente laceranti e destabiliz­zan­ti.

 

[9] Per questo alcune costituzioni recenti, di paesi che per le loro vicende storiche hanno sentito più forte il problema della difesa costituzionale, adottano, combinandoli insieme, tutti tre i sistemi: così la costituzione greca del 1975 (art. 110).

 

[10] Nella recente costituzione spagnola, per esempio, un meccanismo di questo tipo è previsto soltanto per la revisione totale della costituzione o per modificare la parte sulle libertà fondamentali e le regole sulle attribuzioni della Corona (art. 168).

 

[11] Sent. (2 febbraio) 7 febbraio 1978, n. 16, in Giur.cost. 1978, I, 79 ss., 94.